PER UNA FILOSOFIA DELLE ARTI MARZIALI?

Tradotto dall’articolo di Florence Braunstein-Silvestre intitolato POUR UNE PHILOSOPHIE DES ARTS MARTIAUX ?, in Cahiers de l’INSEP Année 1996 12-13 pp. 51-55

Lo scopo del nostro saggio è quello di sollevare una serie di questioni relative al possibile legame tra arti marziali, filosofie e religioni asiatiche. Inizialmente, ci limiteremo a considerare l’approccio all’argomento e le difficoltà che ne derivano.

“Obbedisci ai tuoi maiali che esistono, mi sottometto ai miei dei che non esistono.” René Char, con questa frase, ci mette in guardia contro il desiderio di voler dare troppo spesso un significato troppo profondo a ciò che non ne ha. La domanda sarà se questo sia il caso delle arti marziali, che troppo spesso vogliamo dotare di tradizioni filosofiche o addirittura religiose.

La comprensione di un’opera, di un’arte porta alla sua reinvenzione nella forma di una necessaria rinascita ciclica avviata dall’individuo o dal collettivo. La creazione, l’analisi intellettuale di qualcosa non può essere fatta senza desiderio e qualsiasi desiderio può essere definito un’allegoria, cioè qualcosa di diverso da quanto esplicitamente dichiarato. Dovremmo fare delle arti marziali un simbolismo allegorico? Sappiamo che troppo spesso il confine tra letterale e letterario nasce dall’immaginazione. Pascal in “Les Provinciales” ha rimproverato ai gesuiti di far dire alle Sacre Scritture ciò che non hanno detto. Stiamo quindi allontanando le arti marziali dal loro significato originario, quello di tecniche di guerra, allo stesso modo?

“L’uomo animale simbolico”, per usare l’espressione di Cassirer, ha bisogno di credere per vivere. Senza dubbio è per questo motivo che intreccia immutabilmente catene di costruzioni simboliche. Vive anche delle domande che si pone e muore delle risposte che si dà. Il mondo simbolico è solo un riflesso trasceso del mondo reale. Le arti marziali hanno subito questa metamorfosi, e forse da significanti di una certa verità e realtà sono diventate, attraverso l’immaginazione e la volontà, i significati di un mondo in piena evoluzione simbolica?

Quale approccio all’argomento

Piuttosto che contrapporre due blocchi geografici o storici – Ovest/Est – è senza dubbio meglio cercare di classificarli in culture pragmatiche i cui modelli proposti sono relativi e in culture dogmatiche, i cui modelli assoluti non possono essere rimessi causa. La parola cultura, nelle nostre società, è sinonimo di ciò che poco a poco è stato costruito, edificato, ampliato senza continuità, anche quando le nostre idee coincidono, diversamente nelle società asiatiche, che sono cultura dei segni, la parola cultura è più vicina alla Parola tedesca Kultur che significa tradizione, eredità. L’intero sistema di pensiero in Asia è metafisico e non scientifico come il nostro. Il divino e il sacro sono ovunque. La nozione di verità è soprattutto un’etica, una morale, il mezzo per integrarsi in un’armonia del mondo. In Occidente, la verità può essere ottenuta solo da una conoscenza oggettiva della realtà del mondo.

L’asiatico si adatta al mondo e non cerca di adattarlo ai suoi bisogni; la favola della quercia e della canna illustra abbastanza bene l’opposizione esistente tra Occidente e Oriente. L’Asia sottomette, ammette, ritraduce i suoi modelli con la massima fedeltà: non si tratta di una ricerca mistica per l’Occidente e di una Via (cammino) per l’Asia? Uno cerca di afferrare una verità fuori di sé, l’altro cerca di afferrare questa verità dentro di sé. Tutta questa opposizione è quindi più di ordine antropologico e poggia sulla costruzione di un io, la ricerca fanatica di un io anche se, nel caso del cristianesimo, è meglio sacrificarlo. Non c’è infatti autorealizzazione se non, forse dal punto di vista psicoanalitico, in quella che Jung chiama autorealizzazione. Questa posizione dell’uomo rispetto a se stesso è fondamentalmente contraria a quella dell’Oriente e toglie ancora una volta il significato teleologico dato alla parola verità. Alcuni cercano una prassi, un’azione, altri trovano un uso. Ancora una volta l’utilità si confronta con la ragione delle tradizioni.

Ciò che è fissato nell’eternità dei gesti e delle credenze non ha bisogno di essere messo in discussione attraverso il linguaggio, quindi di essere costantemente riadattato. Le arti marziali, se devono essere viste come un altro mezzo per uccidere se stessi, per conquistare se stessi e non gli altri, diventano l’applicazione diretta di ciò che offrono le filosofie e le religioni asiatiche: l’entos hymon, la verità in te, punto di vista più taoista , o se preferite, più confuciano, deve passare per l’ideale della kenosis (trasformazione). L’idea non è contemplare la vita, ma al contrario staccarsene. La fissità genera movimento… Le arti marziali sono considerate in questo caso come l’espressione attiva e simbolica del corpo materiale che lotta contro lo spirito (spirituale) per liberarlo da tutto ciò che può danneggiarlo. Sebbene la storia ci mostri che esse erano perfezionate e utilizzate come mezzo di protezione e di difesa, nulla impedisce loro di essere considerate anche come una lotta contro se stessi, ma questo è un modo per allontanarli ulteriormente dal loro vero uso.

Le difficoltà

Resta il problema se le “ricette proposte” siano adattabili, fattibili in Occidente. Takuan, nel XVI secolo, introdusse lo Zen nelle arti marziali e nella vita quotidiana per contribuire ad un unico obiettivo, quello della realizzazione spirituale: “Se la mente dice di essere ancora attaccata ai movimenti delle mani e dei piedi, la danza non è ancora perfetta”. Ma non è un unione troppo occidentale il voler associare alla filosofia zen qualche forma di produzione estetica o creativa?

D’altra parte, cosa può cogliere l’uomo occidentale, impreparato, a questa possibile filosofia marziale? Può riscoprire attraverso le arti marziali questa cristallizzazione filosofica che permette di ritrovare l’unità e la purezza originarie?

L’intera storia della filosofia occidentale è dualistica. Tuttavia, tutti i testi cosmogonici ci mostrano che in origine non c’è separazione tra sé e il mondo esterno. L’uomo si spiritualizza mentre il mondo intorno a lui si materializza. Quindi, diventa sia soggetto che oggetto del suo sguardo. L’inizio della coscienza è prima di tutto una coscienza di sé. Apollo e Dioniso convivono bene. Ma chi dovrebbe vincere, Zarastro o la Regina della Notte? Insomma, alternativamente re Lear ed Edipo, non smette mai di districarsi dal suo dharma (destino) e spinge indietro la ruota buddista. L’uomo occidentale prende coscienza di sé solo attraverso la rivolta. Più rinnegato che ribelle, cerca di mettere in discussione le radici culturali da cui proviene, il suo equilibrio è una giustificazione del suo essere. “The Rebellious Man” di Camus ne è un esempio. Per il Tao Te Ching, l’assenza di un nome porta alla verità suprema, alla percezione essenziale del mondo secondo lo Zen. Creare categorie porta alla concezione delle verità relative e distrugge l’assoluto. Eppure questa è tutta la lezione aristotelica. Nella coscienza orientale, anzi in tutte le religioni dell’immanenza, l’uomo non ha bisogno di riadattare la sua posizione o di riformare l’ordine: “Le onde appartengono all’oceano, l’oceano non appartiene alle onde”, dice Çankara.

Nel nostro sistema filosofico, la via necessaria per accedere al sé passa attraverso l’Essere. Chi sono io che mi interessa essere? Sono io o sono io? Il soggetto io o me o me metafisico è inconoscibile dall’esperienza. Gli attribuiamo tutti i fatti psichici di cui siamo consapevoli. L’Io oggetto, o Io empirico, è la rappresentazione tanto di ciò che siamo quanto dei fatti psichici che ci caratterizzano.

L'”Io sono un altro me stesso” di Sartre ci incoraggia a prendere coscienza di questa scissione esistente nella personalità e a considerarci qualcun altro. Oppure, diversamente, l’essere cosciente non si sente immobile, rivendica una storia, un movimento che può diventare di per sé una spiritualità, anche un’immortalità condizionata se decide di essere materia o spirito.

C’è una pluralità di sé. L’idea che si dà di sé viene dalla ragione, ciò che si ha di sé viene dalla coscienza. In ogni caso, nell’uno o nell’altro di questi approcci c’è un atteggiamento basato essenzialmente su una volontà, su un’azione.

Le filosofie indiane mostrano giustamente che l’autocoscienza può avvenire solo attraverso la soppressione di questi due principi. La restituzione dell’io profondo si può fare solo eliminando progressivamente tutte le sue passioni, cioè proprio ciò verso cui tutta la nostra cultura ci spinge.

Conclusioni

In Occidente, come fa notare Roland Barthes, abbiamo segni di cultura e in Oriente una cultura di segni. Il nostro sguardo e il nostro atteggiamento sono storici, quando quello dell’orientale si basa sul significato profondo e lineare delle cose.

Abbiamo mostrato che l’abnegazione raggiunge davvero la sua perfezione solo in Oriente. Anche se il misticismo è praticato in Occidente, esso conduce solo al nulla delle apparenze e non al nulla dell’assoluto. Parlare quindi di filosofia, metafisica o religione nel caso delle arti marziali asiatiche praticate in Occidente si riduce a rendere la filosofia chiara e semplice “un cerchio quadrato e un malinteso”. L’incoerenza fuori è follia dentro!

Riferimenti

BALTA (D.).-Aikido, la via del Maestro Ueshiba, Éditions SEM, 1988.

BRAÙNSTEIN (F.), PEPIN (J.F.).-Les grandes dottrines, Éditions Ellipses, 1993.

BRAUNSTEIN (F.), PEPIN (J.F. ).-Le civiltà dimenticate, Éditions Ellipses, 1994

BRAUNSTEIN (F.), PEPIN (J.F.).-L’uomo in questione, Éditions Ellipses, 1994.

“Pascal Port Royal Orient Occident”, atti del colloquio dell’Università di Tokyo , settembre 1988, pp. 27-29, Klincksieck, 1991.

HERBERT (J.).-Introduzione in Asia, Parigi: Albin Michel, 1960

HUISMAN (D.), MALFRAY (MA).-I più grandi testi di filosofia orientale, Parigi: Albin Michel, 1992.

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