Traduzione di Storti Enrico da Favraud Georges Perspectives Chinoises Année 2008 105 pp. 114-118
Copertina del libro
Adam Frank pubblica qui una tesi di dottorato in antropologia sotto la direzione di Deborah Kapchan e discussa nel 2003 presso l’Università del Texas (Austin). Questo studio si basa sulla pratica dell’autore del “pugilato del polo supremo”, il taijiquan, nell’ambito della Jianquan Taijiquan Association (JTA [questo acronimo risulta perlomeno strano, visto che in Cinese il nome di questa associazione è 上海鉴泉太极拳社]) creata a Shanghai nel 1935 dal maestro di arti marziali Wu Jianquan. Secondo l’autore, tale pratica corporea transnazionale permette, dal punto di vista del discorso, di affermare certe concezioni di identità (in particolare di cinesità) e di confermare differenze (di etnia, estrazione sociale, nazionale). Dal punto di vista del vissuto, invece, diventa un mezzo per abolirli. L’autore si pone così l’obiettivo di “comprendere l’identità così come è, sia “sensualmente vissuta” che culturalmente costruita attraverso la pratica di un’arte marziale nella Repubblica Popolare Cinese e negli Stati Uniti” (p. 4). L’opera è resa molto vivace dal risalto dato a una moltitudine di schizzi e dialoghi che presentano i materiali etnografici dell’autore.
Wu Jianquan 吴鉴泉
Nel primo capitolo l’autore espone le diverse dimensioni del suo lavoro. Questo capitolo è strutturato in modo piuttosto complesso, lungo tre assi: le storie relative al taijiquan, poi quelle relative al taoismo e che sarebbero venute ad essere associate di recente alle precedenti, e infine le idee preconcette che l’autore è stato portato a decostruire durante il suo studio sul campo. Nei capitoli 2 e 3, Adam Frank si concentra sulla dimensione dell’identità che descrive come “vissuta attraverso i sensi”. Descrive la pratica, i suoi rapporti con i suoi tre insegnanti JTA e con gli altri membri dell’associazione. Il taijiquan JTA è praticato principalmente da dilettanti e pensionati, nei parchi della megalopoli di Shanghai, da gruppi organizzati in reti sotto forma di “associazione” (il cui statuto giuridico non è spiegato dall’autore). Anche se evoca le tecniche individuali come fondamento delle tecniche con un partner, l’autore insiste soprattutto sulla pratica delle “spinte con le mani” (tuishou) in coppia. Questa tecnica, che si ritrova in tutti gli stili di taijiquan, se praticata in modo non competitivo, spiega, permette di sviluppare “l’ascolto dell’energia” del partner (tingjin).
Alcuni praticanti credono anche che “la spinta delle mani offra allo studente l’opportunità di percepire il qi dell’insegnante, sviluppare un senso di quiete interiore e, infine, acquisire la capacità di leggere l’intenzione di un avversario, anche senza toccarlo” (p. 24) , così come la capacità di “valutare istintivamente la qualità di una situazione” (p. 106). Si noti che questo “istinto”, non attributo “innato” della specie, ma intenzionalità incorporata dalla pratica delle tecniche, rimanda al concetto taoista di spontaneità/naturalezza (ziran). Dopo aver affrontato le persone e le loro pratiche, l’orizzonte di Adam Frank si estende, nei capitoli 3 e 4, al parco e alla città di Shanghai. Il Taijiquan è studiato lì come “arte pubblica”, che può essere vista praticare nelle strade e negli spazi verdi della città lasciati vuoti dagli urbanisti. «L’identità [poi] si muove attraverso la città e gli individui» (p. 145). Il corpo del praticante di taijiquan diventa “il mezzo che registra l’arte che gli viene trasmessa, e allo stesso tempo un attore che influenza il mondo che produce quest’arte” (p. 100). In particolare, vediamo i praticanti adattarsi alla riqualificazione della Piazza del Popolo e partecipare alla giornata del taijiquan, un evento sponsorizzato dal governo del distretto di Xuhui (Shanghai) per promuovere le pratiche “ortodosse” in un luogo precedentemente occupato dai praticanti del Falun Gong. In altre parole, il taijiquan della JTA è – insieme a molti altri gruppi riuniti sotto l’emblema del taijiquan – sostenuto dai funzionari cinesi per trasmettere i movimenti di qigong che sono caduti in disgrazia nel 1999 e che oggi sono considerati “eterodossi”. Nel capitolo 5, l’autore affronta il taijiquan come simbolo determinante (master symbol) della modernità e del potere dell’intervento statale nella costruzione delle identità. Analizzato qui come un “linguaggio cinestesico vernacolare dello stato”, un taijiquan standardizzato permette di creare “comunità immaginate”, opponendosi a forme tradizionali e locali (p. 160-161).
Praticanti di Taijiquan in piazza del popolo nel 1980
In altre parole, attraverso una politica di patrimonializzazione, il governo cinese, spinto dalla globalizzazione, sta monopolizzando una pratica tradizionale per farne uno sport competitivo e un’attività di svago di massa, soggiogando i corpi dei praticanti e trasformando le loro comunità. Con il governo repubblicano che aveva scelto le arti marziali come uno dei simboli distintivi della sua campagna per “rafforzare il corpo nazionale”, i maestri di arti marziali furono chiamati ad aprire il loro insegnamento al pubblico. Si trattava di trasformare il risentimento verso l’estero in una forza capace di restituire alla Cina una forte posizione internazionale. Gli obiettivi di vincere medaglie e portare le arti marziali alle Olimpiadi sono stati espressi già all’inizio del XX secolo. L’industrializzazione di Shanghai e l’emergere di una classe benestante spinsero poi molti maestri a venire a stabilirsi lì con le loro famiglie. A metà degli anni ’20, le prime competizioni marziali apparvero sotto forma di sport occidentali, come emerge in particolare all’interno dello scritto di Adam D. Frank, programmi supportati dalla YMCA (Young Men Christian Association). Negli anni ’50 fu attuata la politica culturale enunciata in Yan’an (1942) da Mao Zedong: il taijiquan e le altre arti marziali regionali rientrarono nella categoria degli “sport etnici tradizionali” (minzu chuantong tiyu) e vissero un’età dell’oro fino alla Rivoluzione culturale. Oggi, e in questa continuità, tutta una letteratura “commercia con il linguaggio della scienza moderna per convalidare e reificare il “tradizionale” (taijiquan) come pietra angolare dell’identità cinese” (p. 183). La narrazione marziale (capitolo 6) è anche un modo per l’autore di avvicinarsi alla costruzione dell’identità. La tradizione orale dei racconti marziali è antica ed è apparsa sul palcoscenico, in particolare nell’Opera di Pechino.
1970
Fu verso la fine del XIX secolo che furono pubblicate e distribuite poesie di formule ritmate, indirizzate ai praticanti per trasmettere loro istruzioni tecniche, valori marziali e miti. Oggi, il taijiquan immaginario viaggia anche in Cina e oltre, attraverso romanzi, film, cartoni animati e videogiochi. Qui l’autore condivide l’esperienza della partecipazione alle riprese della serie televisiva americano-cinese sul gongfu intitolato Flatland [???]. A differenza della pratica del taijiquan nel parco, leggere o guardare tali opere comporta un atto di immaginazione distaccato dall’esperienza diretta delle arti marziali, “non è un’esperienza diretta del mondo che descrive, ma può ispirare l’esperto di arti marziali a ricostruire questo mondo” (p. 196). Dalla Rivoluzione Culturale alla politica di apertura degli anni ’80, numerose opere di narrativa hanno contribuito far avanzare le arti marziali dallo status di “residuo del feudalesimo” a quello di “una delle più alte conquiste della cultura cinese”. 202).
Taiji Zhang Sanfeng (film)
Da allora, hanno continuato a coltivare alcune rappresentazioni della Cina tradizionale, soprattutto tra gli adolescenti. Nel capitolo 7, l’autore mostra che “la storia della diffusione del taijiquan negli Stati Uniti è radicata nella storia dell’immigrazione cinese ed è intimamente correlata alla geopolitica del secondo dopoguerra. La guerra mondiale, l’emergere del cinema di Hong Kong e Taiwan e cambiamenti relativamente recenti nella politica statunitense nei confronti della Cina” (p. 211). In quanto pratiche transnazionali, le arti marziali incanalano il movimento e l’incontro di persone e identità, costituendo e ricostituendo molteplici forme di cinesità. L’adozione del taijiquan nel quadro della controcultura americana degli anni ’70 porta l’autore ad avanzare l’ipotesi di un taijiquan americano come resistenza al controllo del corpo da parte dello Stato, situandolo su questo punto nella continuità della tradizione taoista in Cina. L’autore mostra, attraverso le argomentazioni commerciali dei DVD di taijiquan, come questa pratica si integri nel discorso new age sulla salute, e in quello del fitness.
Wu Tunan esegue una proiezione conseguenza di un Tuishou
L’aspetto marziale dell’arte è quindi messo in ombra dalla sua associazione con il potere e la bellezza della natura, dalla sua capacità di tonificare i muscoli e bruciare i grassi, o anche dal rilassamento per liberare lo stress. usare. Inoltre, anche se la definizione di qi rimane confusa per i membri della comunità all’interno della quale appare, è l’atto stesso di usare questa parola che produce solidarietà sociale, che aumenta lo status di chi la pronuncia ed evoca un’immagine condivisa di un Cinese alternativo ed esotico” (p. 220). Inoltre, piuttosto che apprendere le tecniche marziali in sé, risulta che molti americani (si potrebbe probabilmente estendere agli “occidentali”) sono più motivati dall’apprendere la “filosofia” delle arti marziali che quella delle tecniche stesse: praticando, vogliono quindi “diventare cinesi per qualche ora” (p. 215).
Giornale dell’associazione di Shanghai
La distinzione operata da Adam Frank tra ciò che è “vissuto attraverso i sensi” e ciò che è “costruito culturalmente” è uno dei fili conduttori del libro. Ha il merito di mostrare come, soprattutto in un contesto globalizzato, la pratica con l’“altro” permetta di instaurare una comunicazione tra le persone al di là dei pregiudizi identitari. Resta il fatto che questa distinzione sembra essere fatta qui troppo chiaramente. La scelta di non integrare il concetto di “persona” per concentrarsi sulla relazione sociale sembra ostacolare l’analisi dell’articolazione in rappresentazioni, corpi e tecniche. L’autore dedica la maggior parte della sua analisi delle tecniche a un movimento praticato in coppia (push hands). Altre tecniche, come quella che ho osservato in un tempio taoista di un villaggio nella Cina centrale, si basano più su una pratica solitaria, lenta o addirittura immobile.
Prima di sperimentare attraverso i sensi il “corpo-persona” dell'”altro” (attraverso la tecnica dello spingere le mani, ad esempio), l’ascolto di se stessi è infatti un primo passo necessario nel processo di determinazione e stabilizzazione (ding) della personalità (xing). Sebbene l’autore sottolinei che l’identità è “ancorata nei (wired into) nostri corpi attraverso l’esperienza ripetuta e l’interpretazione di quell’esperienza” (p. 11), costituendo una “scorta sedimentata di conoscenza sociale” (p. 62) – in altri parole che questa esperienza è diventata spontanea (ziran) – conclude che questa conoscenza incarnata viene poi condivisa e vissuta attraverso i sensi durante la pratica.
L’antica cosmologia cinese – e come aggiornata dai taoisti che ho osservato – ritiene che la quiete (jing) e il movimento (dong) siano due principi complementari e inseparabili. Le pratiche di quiete (jinggong) si concentrano sulla pacificazione del proprio corpo-persona (perché il termine “corpo” rimanda anche alla nozione di “persona”, come evidenziato dal doppio significato del termine shen). Fermando il movimento del corpo e la narrazione costantemente proiettata sul mondo, emerge naturalmente un’armonizzazione di sé con il cosmo. In altre parole, il praticante accede attraverso le tecniche, alla fonte dei concetti e dei valori che strutturano la comunità e le persone. È allora su questa base che si dispiega un movimento (dong) – attraverso “sensi che assumono senso”, sinonimo di presa di posizione nel rapporto con gli altri e con l’ambiente circostante. Ciò che rende il taijiquan una tecnica piuttosto che un aggregato di gesti sono le rappresentazioni e le finalità che la persona associa ai propri movimenti, nonché l’efficacia che la comunità riconosce nella loro esecuzione. Un tale ancoraggio nel corpo-persona e nel processo di incorporazione avrebbe forse permesso all’autore di chiarire il concetto spesso vago ed etereo di “identità” che egli definisce in perpetuo movimento tra spazi diversi (il parco del popolo, il appartamento, la città di Shanghai, la competizione sportiva, gli Stati Uniti…) e diversi livelli di discorso (la “tradizione” taoista, il passato fantasticato, la politica del governo, la new age…).
Basando la sua analisi su una moderna associazione della megalopoli di Shanghai, per poi rientrare negli Stati Uniti, Adam Frank si immerge subito anche nella complessità di una società globalizzata. Descrive certamente i processi storici di modernizzazione del taijiquan, ma senza partire dai simboli e dalle organizzazioni sociali in cui queste tecniche hanno avuto origine (cioè la cultura del corpo cinese prima della sua globalizzazione). I taoisti della tradizione della completa autenticità (quanzhen) – questi specialisti in tecniche corporee che studio – mi sembrano fornire un buon esempio di elaborazione e socializzazione alternativa del corpo-persona, ma articolata all’organizzazione sociale imperiale. Impegnandosi sulla base di una “affinità predestinata” (yuanfen) in un rapporto tra maestro e discepolo, questi taoisti entrano a far parte di una tradizione e di una comunità. Lasciano la loro terra natale e “lasciano la famiglia” (chujia).
Un atto carico di significati nella società imperiale dove l’organizzazione sociale si basava sulla religione distato confuciana, assumendo a livello locale la forma di clan di contadini che sacrificavano agli antenati e al dio della terra. Correlativamente alla padronanza delle loro tecniche rituali, questi taoisti si formarono una personalità, poi permisero ai fedeli di aggirare la gerarchia confuciana comunicando dal villaggio con le divinità della loro tradizione: i maestri ancestrali (zushi) della loro gerarchia celeste e il loro principi cosmologici. Durante la crisi d’identità dell’inizio del ventesimo secolo che Adam Frank descrive nel capitolo 5, la quiete (jing) era equiparata alla debolezza dell’uomo asiatico e all’immobilità della nazione cinese. I miti dello sviluppo tecnico-scientifico, economico e politico della modernità •associati al movimento (dong) •trasformarono la cultura cinese e le sue tecniche del corpo. Il retroterra cosmologico che ha sostenuto la cultura del corpo cinese è stato da allora messo a confronto con la cosmologia e le organizzazioni sociali di una modernità guidata dall’Occidente. Adam Frank, dimostrando che la modernizzazione ha cambiato l’ambiente delle tecniche JTA, riporta testimonianze che considerano da un lato l’evoluzione di queste tecniche come quelle di un’arte marziale verso una pratica salutistica, e che sottolineano dall’altro l’assenza di giovani nel gruppo fino interpretarlo come una sorta di “evirazione” (p. 115). Molti praticanti apprezzano poi le sessioni impreziosite da dimostrazioni o racconti di potenza. Anche a me sono state spesso riferite testimonianze simili: mi sono state infatti raccontate le lotte di questi “eroi” che venivano in città e che andavano a scuola, o addirittura esprimevano il desiderio di studiare le “applicazioni marziali” dei movimenti. Certo è che nella Shanghai degli anni 2000 la violenza è molto più simbolica che in un villaggio di epoca repubblicana. Tuttavia, questa questione della marzialità del taijiquan e della “virilità” cinese merita la nostra attenzione.
Secondo una tradizione orale taoista che mi è stata riferita, il taijiquan fu creato dal taoista Zhang Sanfeng durante la dinastia Ming. Avendo padroneggiato le tecniche di meditazione taoista, non aveva ancora raggiunto uno stato soddisfacente di salute e tranquillità. Ha poi sviluppato tecniche di movimento, prima di tutto per “nutrire la vita” (yangsheng), poi marziali per difendere il proprio spazio di esistenza in caso di aggressione. La realtà storica di questa versione è contraddetta dagli storici che collocano l’origine del taijiquan nell’arte marziale della famiglia Chen dell’Henan, nel XIX secolo. Senza entrare in dibattiti storici, mi sembra che questa teoria qui riportata da Adam Frank, non collochi questo corpus di tecniche nelle dinamiche della cultura corporea cinese, dove tecniche marziali, mediche e rituali di meditazione hanno convissuto a lungo in diverse comunità. Diverse antiche agiografie di maestri taoisti e buddisti, ad esempio, attribuiscono loro chiaramente abilità in molte di queste aree.
Dalle mie osservazioni, non vi è alcuna profonda differenza di natura anatomica o motoria tra questi diversi aspetti delle tecniche corporee cinesi. Le differenze riguarderebbero essenzialmente le rappresentazioni che ciascuno le associa. La meditazione, la medicina e le arti marziali possono indubbiamente costituire tre assi che permettono l’analisi di un rituale cinese come il taijiquan. Nel corso delle generazioni, è la capacità di alcune persone di interpretare e padroneggiare le proprie tecniche che spiega perché ci sono quasi tante varianti di taijiquan quanti sono i maestri di taijiquan, e quindi, a lungo termine, le tecniche si rinnovano, le tradizioni e le comunità che riuniscono appaiono e scompaiono. Questa teoria, che isola il taijiquan dal suo contesto storico, simbolico e sosociologico originario, mi sembra quindi contenere il rischio di contribuire a una ricostruzione della storia volta a legittimare l’etichetta di taijiquan come marcatore identitario di una Cina moderna e radiosa.
Per l’etnologo, questi due discorsi contraddittori (origine del taijiquan in combattimento o in meditazione) potrebbero esprimere più semplicemente il significato investito nelle loro tecniche da diversi praticanti di diverse comunità. Sentire esprimersi questo sentimento di evirazione ci spinge a pensare che la crisi di identità – che un secolo prima spinse la Cina a “rafforzare il corpo nazionale” – sia stata appena risolta. Se ci fosse un limite al lavoro di Adam Frank, starebbe nella mancanza di analisi delle tecniche, in particolare nel loro rapporto con la persona e con la sua cultura d’origine. Forse la sensazione di dispersione che a volte emerge dall’opera si spiega con la sua difficoltà a fare la sintesi tra uno strumento antropologico comunque rilevante e una profusione di materiale di ricerca sul campo. Adam Frank ha infatti il merito di aver svolto un lungo lavoro sul campo immerso nella comunità che stava studiando. Un’opera senza la quale non avrebbe potuto realizzare questo primo studio antropologico occidentale sulla pratica di una tecnica corporea cinese all’incrocio tra arti marziali, medicina e meditazione.
Introduzione storica allo stile Wu di Taijiquan
Particolarmente apprezzabile è anche l’approccio di Adam Frank, che consiste nel situare la pratica di un taijiquan di Shanghai in un paesaggio umano e urbano, confrontandola poi con la politica e la storia della sua modernizzazione. Molto istruttiva è anche l’analisi della globalizzazione di queste tecniche e la comparsa di comunità di praticanti negli Stati Uniti, attraverso i discorsi di new age, fitness, politica ed economia – filtri dai quali nessun occidentale è totalmente al riparo. •
Tradotto da Storti Enrico Dal saggio Violence Un-scrolled : Cultic and Ritual Emphases in Painting Guan Yu , scritto da Oliver Moore e pubblicato in Arts Asiatiques Année 2003 58 pp. 86-97
Dipinti e immagini popolari di Guan Yu
Fig. 2 “Il Signore Guan taglia [la testa] dell’assistente governatore Pang De” 关公斩庞德佐, illustrazione xilografica successiva al periodo del regno di Zhizhi (1321-1323), edizione dei Racconti dei Tre Regni, dimensioni aperto 18 x 13.5 cm (after Yuan Zhizhi ben quanxiang pinghua Sanguo zhi. Hong Kong, 1976, p. 69).
Il dipinto di Guan Yu di Shang Xi è il primo ad essere sopravvissuto, ma diverse rivendicazioni di possedere dipinti di questa figura popolare di artisti precedenti e più famosi mostrano che costituiva nei secoli scorsi un soggetto importante della produzione artistica anche tra i collezionisti d’arte più ricchi. Gunter Diesinger ha raccolto questi riferimenti, che includono in particolare un’affermazione del tardo XVII secolo di possedere un’immagine di Guan Yu dipinta da Li Gonglin (c. 1049-1106). Nel 1626, un dipinto di Ma Yuan (c. 1150-1230) avrebbe fornito un modello per l’immagine di Guan Yu scolpita su una stele a Zhenhai nella moderna provincia di Zhejiang.
L’immagine della stele attribuita a Ma Yuan
I cataloghi Ming contengono anche riferimenti a dipinti di Guan Yu di artisti sconosciuti del periodo Song e a un dipinto di Dai Jin (1388-1462). Inoltre, come indicato da Diesinger, che include anche un’opera di Wu Daozi, si riferiscono al tardo periodo Ming, quando il culto di Guan Yu stava crescendo rapidamente sia come pensiero ufficiale che come oggetto di devozione di massa. I cataloghi delle collezioni d’arte imperiali non danno alcun riferimento ai dipinti di Guan Yu associati a questi grandi nomi dei periodi Tang e Song, e nessuna di queste opere attribuite sopravvive. Allo stesso modo, l’immagine di Guan Yu di Dai Jin non è attestata altrove, ed è più probabile è che alcune o tutte queste opere fossero produzioni Ming attribuite a famosi pittori del passato. Chiaramente, la prima prova materiale per dipingere un’immagine di Guan Yu è il lavoro di Shang Xi. E il significato di questo dipinto si rivela principalmente in altre rappresentazioni di Guan Yu in altri strumenti di comunicazione. La considerazione successiva, quindi, è il rapporto tra la pittura di Shang Xi e l’ascesa della letteratura popolare, che tanto ha fatto per promuovere il culto di Guan Yu.
Questo affresco fa parte di una serie dedicata al Romanzo dei Tre Regni all’interno del Tempio di Guan Di 关帝庙 di Jinci 晋祠 (Taiyuan, Shanxi) dipinti nel 1795 durante il regno di Qianlong. È interessante notare che la stessa scena che nella fig.2 indica che viene decapitato Pang De, in questo affresco diventa “taglia [la testa] a Cai Yang”斩蔡阳. Anche in altri casi si verificano attribuzioni diverse di didascalie a soggetti simili.
Gli studi precedenti, sopra indicati, giustificano l’importanza del dipinto con riferimento alla presenza del soggetto nella storia, nella prima narrativa popolare e nel dramma, ma non dicono abbastanza sulla forza del culto sottostante a quelle tradizioni letterarie. Non riconosce, ad esempio, che la crescente presenza di Guan Yu nella letteratura popolare rifletteva in gran parte l’ascesa del suo culto. Lo studio di Meir Shahar sul culto di Ji Dian (noto anche come Ji Gong) nella tarda Cina imperiale mostra che la narrativa popolare era chiaramente un agente vitale nei processi attraverso i quali un culto si diffonde da una regione all’altra e diventa oggetto di attenzione nazionale. [28] La crescita dei resoconti popolari della storia dei Tre Regni è correlata in modo simile con l’intensificarsi del culto di Guan Yu dal periodo Yuan in poi, hanno avuto un’incidenza più o meno mediata su quelle immagini.
Affresco di epoca Qing di un tempio dedicato a Guan Di nella città di Yuanping 原平 in Shanxi che ritrae l’esecuzione diPang De
Ma il confronto del dipinto di Shang Xi con il materiale illustrativo nelle edizioni sopravvissute della letteratura popolare mostra quanto fosse distinto dalle visualizzazioni create nelle opere letterarie popolari. L’azione violenta ha fornito alcuni dei materiali più attraenti per le illustrazioni nelle produzioni di libri delle storie dei Tre Regni. I primi esempi sopravvissuti sono le xilografie di Wu Junfu contenute nell’edizione in tre juan (rotoli) Nuovo e Completo Racconto Popolare Illustrato della Storia dei Tre Regni (Xin quanxiang pinghua sanguo zhi), completate durante il periodo del regno Zhizhi (1321-1323). Un’edizione originale sopravvive nel Bunko Naikaku a Tokyo, ma l’opera è generalmente nota attraverso diverse successive edizioni in facsimile prodotte a Shanghai. L’opera contiene settanta illustrazioni, che includono diciassette battaglie e quattro omicidi raffigurati separatamente. Una delle scene di battaglia mostra Guan Yu che uccide Pang De (fig. 2). Il generale decapitato si agita a terra pochi istanti dopo che Guan Yu, che è a cavallo e sta cavalcando verso il bordo della scena, ha sferrato il colpo fatale. Questa prima illustrazione delle imprese di Guan Yu nella narrativa popolare racconta il conflitto dei due protagonisti in un modo che non è complicato né dalla suspense narrativa né dalla presenza di altre figure identificabili. In effetti, l’intera scena illustra un brano lungo solo dodici caratteri, meno di una colonna di testo in un blocco completo di quaranta.
Fig.3 “Zhang Fei frusta un sovrintendente del servizio postale” 张飞鞭督邮, illustrazione xilografica successiva al periodo del regno di Zhizhi (1321-1323), edizione dei Racconti dei Tre Regni, dimensioni aperto 18 x 13.5 cm (after Yuan Zhizhi ben quanxiang pinghua Sanguo zhi. Hong Kong, 1976, p. 16).Anche qui si nota una notevole somiglianza con il dipinto di Shang Xi sebbene i riferimenti ad un episodio letterario del romanzo siano differenti.
Le immagini create nel contesto della narrativa popolare, non meno dei messaggi narrativi che servivano, differivano nettamente dalla rappresentazione di Shang Xi e dai significati ad essa associati. Altre sei scene in Racconti Popolari Yuan – giudiziosamente distribuite due per Juan (rotolo) – mostrano un pubblico formale comandato dai principali eroi delle storie dei Tre Regni, in cui le vittime condannate vengono giustiziate sul posto oppure portate via verso la morte. Le scene del pubblico sono, ovviamente, molto efficaci come congiunture progressiste nella letteratura narrativa e nelle sue illustrazioni, e non sorprende che ricorrano frequentemente: i Racconti popolari contengono diciassette protagonisti non violenti. Nella stessa opera, il confronto standard rappresentato in tutti e sei i protagonisti violenti non è dissimile da come Shang Xi ha disposto le figure di Guan Yu e Pang De. La corrispondenza più evidente tra queste sei illustrazioni Yuan mostra la flagellazione di un funzionario legato e spogliato con gli istigatori della sua punizione seduti sui gradini di fronte a lui (fig. 3). Ma la questione divergente in queste somiglianze generiche riguarda la partecipazione di Guan Yu. Sebbene le illustrazioni nei Racconti popolari lo mostrino mentre uccide un certo numero di vittime, non appare mai in un pubblico formale pronunciando loro una sentenza. Pertanto, la rappresentazione di Guan Yu in un tale ruolo da parte di Shang Xi non sembra avere un’origine nel materiale illustrativo della narrativa popolare. Il confronto del dipinto con un’antica immagine di culto di Guan Yu, tuttavia, mostra un’altra tradizione visiva alla quale era ugualmente, se non più strettamente, correlata.
Immagini del culto di Guan Yu
Fig. 6 affresco che mostra Guan Yu, Guan Ping, Zhou Cang e altri, 1460 o precedente, altezza 110 cm. Presso il tempio Pilu Shijiazhuang, Hebei (Da: Jin Weinuo (éd.), Zhongguo meishu quanji, “Huihua”, vol. 13, Beijing, 1988, pi. 161).
Il culto di Guan Yu sorse all’interno di uno schema familiare: da un lato, il crescente sostegno del governo seguì le ondate della sua popolarità; e dall’altro, la stessa espansione popolare stimolò le politiche statali di condono delle pratiche religiose che circondavano i suoi agenti ufficiali. La dualità popolare-ufficiale di questa situazione, come proposto da James Watson nel suo studio su Tian Hou (noto anche come Ma Zu), è che lo statuto di “divinità sia promosse che cooptate”. [30] Potrebbe sembrare plausibile, quindi, leggere il dipinto di Shang Xi come una produzione artistica di corte che combinava in un’unica immagine una concezione di Guan Yu del pantheon di stato con le caratteristiche che anche il culto popolare si aspettava di vedere. In tal caso, dove la pittura di Shang Xi offre un senso critico all’interno delle prove rimanenti delle immagini precedenti e contemporanee di Guan Yu?
Quest’altro dipinto che ritrae Guan Yu è attribuita sempre a Shang Xi
Secondo Shan Guoqiang, uno studioso di arte Ming, Shang Xi ha dipinto più di una rappresentazione di Guan Yu. Sebbene la sostanza dell’affermazione di Shan Guoqiang non riappaia nella particolare fonte che cita, è plausibile che Shang Xi abbia dipinto raffigurazioni delle leggende di Guan Yu all’interno del tempio di Guan Yu alla Porta di Zhengyang. [31] Registri dei templi Ming di Pechino dedicati dallo stato al culto di Guan Yu se ne contano ben cinquanta, e questo totale raddoppia nel periodo Qing. Pochi di questi siti furono celebrati quanto il tempio statale all’interno del muro a forma crescente della Porta Zhengyang, la porta centrale delle mura cittadine a sud, che un tempo chiudeva il lato meridionale di quella che oggi è Piazza Tiananmen. Questo tempio fu fondato nel 1387 – un anno prima dell’abolizione delle osservanze statali verso il Re Wucheng – e sorgeva vicino al quartier generale metropolitano delle Guardie Vestite di Broccato (fig. 4). Una testimonianza indiretta dell’alto status di Guan Yu nel tempio della Porta di Zhengyang è il fatto che si trovava di fronte a un tempio di Guan Yin, la figura di culto buddista più popolare della tarda Cina imperiale. Inoltre, i compilatori del dizionario del 1635 registrarono anche che tutte le missioni diplomatiche e il traffico governativo da e per la capitale si fermavano per adorare al tempio di Guan Yu. Pertanto, situato in quello che un tempo era un ambiente permanente, parte della produzione di Shang Xi è stata dedicata agli sforzi statali per espandere il culto di Guan Yu. La sua immagine di Guan Yu nel tempio della Porta di Zhengyang ha affrontato un pubblico il cui numero, influenza e mobilità sono stati fattori non trascurabili nell’espansione del culto.
Fig. 3
Pianta della Porta di Zhengyang [1A], compreso il tempio di Guan Yu [lb], e il vicino quartier generale delle Guardie in broccato [2] (modificata dopo: Mayuyama Yasuhiko, Pekin no shiseki, Tokyo, 1979, p. 25).
1A Porta Zhengyang
1b Tempio di Guan Yu
2 Guardie in abiti di broccato
3 Ufficio di trasmissione della politica
4 Corte dei Sacrifici Imperiali
5 Cinque Commissioni Militari
6 Porta Chengtian (porta principale del palazzo) 7a Porta ovest di Chang’an
7b Porta orientale di Chang’an
8 Consiglio degli aquiloni
9 Consiglio delle Entrate
10 Consiglio del personale
11 Ufficio del Clan Imperiale
12 Consiglio di Guerra
13 Consiglio dei Lavori
14 Corte di Stato Cerimoniale
15 Direzione dell’Astronomia
16 Loggia del Gran Medico
Nulla conferma se “Guan Yu cattura un generale ribelle” di Shang Xi duplica in qualche modo il contenuto e lo stile degli affreschi che ha eseguito al tempio della Porta Zhengyang. Ma tale duplicazione sarebbe stata abbastanza plausibile, poiché era pratica comune per i pittori eseguire lo stesso soggetto in due o più supporti. Ad esempio, sebbene prodotti un secolo dopo, i quattro rotoli pendenti che You Qiu donò a Wang Shizhen (1526-1590) comprendevano quattro immagini di Guan Yu che You aveva dipinto anche sulle pareti del tempio di Guan Yu a Taicang. I titoli di questi quattro dipinti sono registrati negli scritti di Wang Shizhen, e un titolo, vale a dire “L’annientamento dei sette eserciti del generale Yu Jin”, indica la grande inondazione che si verificò durante lo scontro di Guan Yu con Pang De. [33] Gli altri titoli alludono alle immagini dei poteri magici di Guan Yu per reprimere i demoni, la sua forza sovrumana e il suo ruolo di carnefice dei suoi nemici. Se davvero il dipinto di Shang Xi replicava una rappresentazione murale dello stesso soggetto, allora il rotolo potrebbe essersi conformato strettamente a un’iconografia ortodossa adottata nella decorazione dei templi statali dedicati a Guan Yu. Al di là di tali speculazioni, tuttavia, l’arte precedente mostra chiaramente che la disposizione delle figure di Shang Xi deviava solo marginalmente dall’aspetto tradizionale dell’immagine di culto di Guan Yu.
Fig. 5 stampa xilografica che mostra Guan Yu, Guan Ping, Zhou Cang ed altri, circa 1130, 70×25 cm. Hermitage, San Pietroburgo (after: M. Rudova-Pshelina, “Dvye gravyuri iz Khara-Khoto” Soobshcheniya gosudarstven- nogo ordena Lenina ermitazha, vol. XXVIII (1967) p. 47).
Il confronto con una xilografia del XII secolo proveniente dalle celebri officine di Pingyang (l’odierna Linfen nella provincia dello Shanxi) rivela che Shang Xi seguiva un’iconografia già diffusa nella Cina settentrionale all’inizio del XII secolo (fig. 5). La composizione di Guan Yu e le figure di accompagnamento proposta da Shang Xi condivide una disposizione pittorica simile e la stessa scala interna. [34] La stampa di Pingyang è la prima immagine esistente di Guan Yu. La sua legenda superiore recita “Il re giusto e coraggioso di Wu’an” {Yiyong Wu’an wang), un titolo dei Song del nord che l’imperatore Huizong concesse nel 1123. Anche se la sua funzione esatta non è nota, le grandi dimensioni della stampa (70 x 25 cm) e la sua alta qualità indicano che è stato creato per la circolazione in un formato diverso dall’illustrazione popolare del libro. La stampa di Pingyang mostra Guan Yu rivolto verso la sua destra, ma, come il dipinto di Shang Xi, è seduto sotto un pino e la sua presenza elevata domina l’intera immagine. Nella stampa e nel dipinto lo stato relativo delle figure nelle aree superiore e inferiore del piano pittorico segue le stesse convenzioni di scala gerarchica. Le cinque figure che accompagnano Guan Yu nella stampa includono Guan Ping, che sta in piedi a sinistra, e Zhou Cang che impugna una spada a palo sulla destra. L’esistenza della stampa rivela che Shang Xi compose le figure nella sua immagine per una disposizione che risaliva almeno all’inizio del XII secolo. L’inclusione nella stampa del titolo di Guan Yu concesso dal governo dei Song settentrionali la rende particolarmente preziosa come la prima prova dell’immagine di culto ufficiale di Guan Yu. Non solo le composizioni simili della stampa di Ping-yang e del dipinto di Shang Xi forniscono una giustificazione per leggere quest’ultimo principalmente come un’immagine di culto, ma sia la stampa che la pittura evocano la stessa missione statale di dare priorità all’aspetto civile del governo e di emarginare i culti militari. In effetti, la personalità marziale di Guan Yu in entrambe queste immagini è sottilmente minimizzata mostrandolo seduto piuttosto che montato su un cavallo, per esempio, e libero dalle armi, che sono portate solo da suo figlio e da altri seguaci. Questa distribuzione delle armi è particolarmente calzante in quanto attiene alla dimensione padre-figlio della tradizione politica cinese, utilmente definita come quando «la paradigmatica virtù marziale del figlio era posta al servizio della paradigmatica virtù civile del padre “. [35] Significativamente, inoltre, nel dipinto di Shang Xi, Guan Ping e non Guan Yu sguaina la spada dell’esecuzione.
Altra raffigurazione di Guan Yu di epoca Ming conservata sempre presso la Città Proibita
Una rappresentazione murale di Guan Yu dipinta più tardi, nel XV secolo, conferma che la stessa iconografia di gruppo, sia nella stampa di Pingyang che nella pittura di Shang Xi, era precisamente ciò che rendeva Guan Yu una figura riconoscibile in grandi programmi visivi di culto religioso. Questo dipinto mostra Guan Yu con Guan Ping, Zhou Cang e un soldato all’interno di una sezione degli affreschi della sala completati nel 1460 presso il Tempio Pilu nell’odierna Shijiazhuang (fig. 6). Un cartiglio sul muro nomina Guan Yu come il “vero signore che eleva la pace e protegge lo stato” {chongning huguo zhenjun), che era un altro titolo assegnato durante la fase Song del suo culto sotto Huizong. Guan Yu e i suoi compagni compaiono in un registro sequenziale, anch’esso parte di un’ampia rappresentazione di centinaia di divinità e figure mitiche utilizzate per i “digiuni di acqua e terra” {shuilu zhai), i riti annuali di salvezza buddista che divennero sempre più complessi durante il Ming dinastia.
Particolare dell’affresco del tempio Pilu
Abbastanza diverso dal dipinto di Shang Xi di circa tre decenni prima, tuttavia, l’immagine del Tempio di Pilu mostra Guan Yu armato della sua stessa arma – la spada sul fianco sinistro – e che avanza a grandi passi. Notevole anche la sua faccia rossa. Se le immagini Ming di Guan Yu avessero corrisposto alle aspettative del pubblico del teatro, avrebbero potuto benissimo includere questa. Le corrispondenze tra il murale del Tempio Pilu e il dipinto di Shang Xi sono principalmente l’aspetto fisico e l’abbigliamento dei compagni di Guan Yu, nientemeno che Guan Ping, che si trova sulla destra della composizione del Tempio di Pilu. Sebbene non tenga la spada, è dipinto con la stessa posizione frontale e la stessa espressione calma che figurano anche nel dipinto di Shang Xi. Allo stesso modo, l’aspetto dello sfortunato Pang De nel dipinto di Shang Xi ricorda i fisici altamente tormentati delle vittime nude della punizione karmica ei demoni a corpo nudo raffigurati nell’arte prodotta per i digiuni di acqua e terra. Esempi comparativi sono presenti nella serie di rotoli prodotti c. 1460 e usato in questo rituale nel tempio di Baoning nella provincia dello Shanxi, [36] ma la storia della loro rappresentazione risale a prima dei rotoli dei canti meridionali dei re dell’inferno nelle loro aule del giudizio. [37]
Altra raffigurazione di Guan Yu dell’epoca Ming intagliata nel legno
Chiaramente, quindi, come esemplifica con certezza la stampa Pingyang, Shang Xi seguiva una tradizione artistica associata al culto di Guan Yu. Le somiglianze tra la stampa, il dipinto di Shang Xi e l’immagine murale del tempio Pilu rivelano anche un grado significativamente conservativo di trasferimento diretto di elementi visivi per l’iconografia di gruppo utilizzata dagli artisti di tutti questi metodi di trasmissione visuale. Mostrano anche un altro esempio dell’ampia circolazione di immagini che ha contribuito all’ascesa di una comune cultura visiva cinese. [38] Uno degli impulsi principali per questa circolazione è stato il culto di Guan Yu.
L’immagine di Guan Yu rielaborata nei testi
Altrettanto notevoli quanto forza delle immagini di culto sono alcune espressioni letterarie dell’aspetto di Guan Yu, che dimostrano la diffusa familiarità che la sua immagine imponeva. È molto probabile che l’iconografia del culto di Guan Yu abbia influenzato Shang Xi – e altri artisti – profondamente, ma le prove nei testi letterari mostrano anche che le storie con Guan Yu hanno subito una forte influenza dalla cultura visiva. In effetti, l’influenza reciproca delle immagini letterarie e visive taglia entrambe le direzioni. Considera il seguente passaggio del romanzo Ming, che racconta i momenti appena prima che Guan Yu riceva una grave ferita:
“[Guan Yu] … si alzò sulle staffe e, puntando la frusta verso [il nemico], sfidò: ‘Tu verminoso, perché non vieni avanti e ti arrendi? Cos’altro stai aspettando?’ Era a metà del percorso quando Cao Ren, che era sui bastioni, notò che il Duca Guan indossava solo una protezione per il cuore, poiché di sbieco sul suo petto era drappeggiata la sua veste verde [xie tan zhuo lit pao], così ordinò immediatamente di alzarsi acinquecento balestrieri che scagliarono una raffica di dardi.” [39]
Il Romanzo dei Tre Regni, come altri romanzi a episodi dei Ming, comprende principalmente azioni narrate e discorsi diretti. Quindi, l’immagine di Guan Yu nella sua veste verde è una punteggiatura insolitamente statica nel corso degli eventi. È una visione momentanea di Guan Yu che contribuisce poco alla comprensione della storia, ma fornisce un’icona di lui immediatamente riconoscibile da abbinare a qualsiasi numero di immagini di culto. Tali scorci suggeriscono precisamente come la composizione di questo famoso romanzo non sia stata influenzata dall’arte religiosa del suo tempo. Non solo le rappresentazioni visive potevano modellare i testi, ma l’ubiquità delle immagini di Guan Yu nei dipinti verso la fine della dinastia influenzò il modo in cui i Ming descrivevano i loro contemporanei. Secondo i suoi biografi, un certo Guan Yongjie († 1642), che affermava di discendere dal grande generale della storia e della leggenda, possedeva esattamente i tratti eroici che la gente lo riconosceva nei ritratti contemporanei di GuanYu. [40] Forse anche Guan Yongjie contribuì a questo percezione indossando gli abiti giusti e assumendo pose familiari.
La pittura di Shang Xi come metafora del rituale militare Ming
Soldati Lupo 狼兵 che furono istituiti a metà della dinastia Ming
Nonostante ciò che ha in comune con la stampa Pingyang, la rappresentazione di Guan Yu e del gruppo circostante di Shang Xi li mostra in un ambiente notevolmente più complesso. La posizione di Guan Yu in un paesaggio montuoso con le nebbie che turbinano dietro di lui è un’ambientazione convenzionale per una figura divina all’interno di un habitat selvaggio di acqua e montagne. Tali scene appaiono nella maggior parte delle immagini di singoli luohan e singole figure di culto taoiste dipinte durante i periodi Sung, Yuan e Ming. Ma lo scenario di Shang Xi suggerisce un secondo contesto equivalente a un’ambientazione architettonica composta da una pedana di roccia, i gradini sotto di essa, pareti a strapiombo di roccia e un grondare di rami di alberi. Se accettiamo che gli immediati dintorni di Guan Yu simboleggino gli elementi architettonici adiacenti a un recinto aperto, allora possiamo anche accettare che ciò che accade nella scena sia estratto da una serie di azioni eseguite all’interno dell’architettura di un luogo specifico e non semplicemente di una natura selvaggia. In questo contesto, la pittura di Shang Xi portava forti sfumature della vita militare Ming, soprattutto in una delle sue principali cerimonie nazionali, vale a dire “l’offerta di prigionieri” (xianfu), un rituale di stato di antichissima tradizione e registrato in numerosi documenti come l’atto finale di campagne di successo per sedare le insurrezioni. “Offrire prigionieri” ha avuto origine nelle guerre combattute durante l’età del bronzo cinese. Veniva eseguito durante l’epoca imperiale sulla scia delle ribellioni, quando i prigionieri di ogni grande insurrezione venivano portati davanti al trono. Tenendo l’udienza sopra la porta del palazzo, l’imperatore pronunciava la sua decisione di punire o risparmiare. Se il destino dei prigionieri era una punizione, i loro carcerieri li offrivano al santuario ancestrale statale e poi li portavano via per l’esecuzione.
Altra immagine dei soldati Lupo del Guangxi
Il “Guan Yu” di Shang Xi è stato dipinto durante un periodo di fiducioso potere militare. Nel giorno della designazione formale di Pechino come capitale di tutta la Cina, il 28 ottobre 1420, il governo aveva dedicato quasi due decenni a garantire il suo nuovo centro amministrativo e strategico nel nord. La forza trainante di questa trasformazione nord-sud fu l’imperatore Yongle (r. 1403-25), che era raramente presente per assistere alla costruzione, ma lontano combattendo varie alleanze mongole nella Siberia meridionale. Una volta completato, il trasferimento del dominio imperiale nel nord divenne un potente simbolo delle priorità dell’esercito. Inoltre, l’imperatore Yongle dovette la sua posizione sul trono in gran parte alla brutale guerra civile (1399-1402), che scatenò per strappare il potere all’imperatore Jianwen (1399-1403). Le vittorie in guerra hanno modellato la visione di Yongle del dominio e, una volta al potere, ha creato intorno a sé una nobiltà militare. Il dipinto di Shang Xi è stato dipinto dopo il regno di Yongle, molto probabilmente durante quello di Xuande (1426-36). Questo periodo si è aperto violentemente.
Immagine risalente al 1599 dal titolo 关羽挺风勒
Il 1426 fu testimone di uno spietato trionfo dell’autorità imperiale sul dissenso quando il governo represse una ribellione guidata da Zhu Gaoxu, lo zio dell’imperatore Xuande, nello Shandong. [41] La campagna per sopprimere questa ribellione alla successione imperiale fu una guerra d’assedio relativamente semplice e durò solo poche settimane, ma la condanna e la punizione dei capi della ribellione in seguito furono eseguite a fondo e con il massimo effetto pubblico. È impossibile commentare qualsiasi rilevanza diretta di questi eventi storici per il lavoro di Shang Xi. Più significative sono le sue formulazioni generiche di punizione e violenza. Mette in scena il dramma degli ultimi istanti di Pang De in una scena di punizione sfumata dalla minaccia di una violenza imminente: al centro dell’immagine una spada sguainata a metà prefigura l’inevitabile esito. L’ambientazione di questa azione evoca l’architettura minima necessaria per interpretare le azioni delle figure all’interno della vita contemporanea dell’epoca. In termini rituali, la scena evoca una relazione ineguale in cui un superiore siede sopra un inferiore o, in riferimento al servizio religioso, il venerato occupa una posizione al di sopra del fedele. Allo stesso modo, tradotto in un ambiente giudiziario, Guan Yu appare come un giudice che condanna un colpevole. Nessuna di queste letture è in conflitto con l’evocazione della scena della cerimonia dell'”offerta dei prigionieri”. Le prime registrazioni di esibizioni Ming di offerte di prigionieri risalgono al regno di Yongle. Nei decenni precedenti, al contrario, Zhu Yuanzhang, il fondatore Ming e imperatore Hongwu, aveva proibito all’esercito di far sfilare i prigionieri dell’esercito Yuan in un’esibizione della cerimonia. Zhu Yuanzhang chiese esplicitamente alla sua corte se i governanti Zhou avessero compiuto tali atti sui sopravvissuti catturati della resistenza Shang, o se persino Tang Taizong (627-650) avesse abusato dei sopravvissuti lealisti della resistenza Sui. [42] Questi sentimenti generosi non influirono politica del governo a lungo, dal momento che gli spettacoli della cerimonia sono registrati nel 1384 e nel 1392. [43] Durante il regno di Yongle, il desiderio di decreti altamente espressivi di sottomissione era ancora chiaramente evidente. Nel 1406, infatti, furono stabilite per la prima volta le direttive per lo svolgimento della cerimonia. Gli annali di corte del regno di Yongle, contenuti nella storia ufficiale della dinastia, registrano sei casi di offerta di prigionieri, risalenti al 1407 (due volte), 1414, 1416, 1420 e 1422. [44] Queste rappresentazioni, eccetto quella del 1422, ebbero luogo a Nanchino, ma tutti meritarono di essere documentati come eventi nazionali nella storia ufficiale della dinastia. Le vittime più illustri di questi anni furono i generali vietnamiti catturati durante la futile lotta per imporre il controllo cinese sull’Annam. Al contrario, all’interno delle norme delle relazioni non bellicose, la cerimonia potrebbe essere servita in un contesto diplomatico per trattare i prigionieri catturati e presentati da governi stranieri. Nel 1405 il Giappone presentò alla corte cinese un gruppo di pirati giapponesi. [45] Durante il regno di Xuande, non sono state registrate rappresentazioni della cerimonia, ma è molto improbabile che la sua osservanza sia cessata. L’importanza della cerimonia come evento significativo a livello nazionale sarebbe rimasta riconoscibile e perfettamente suscettibile a una prima visione Ming dell’autorità imperiale con i suoi simboli palesi di violenza controllata. Fonti Ming suggeriscono che Shang Xi avrebbe potuto sapere molto sulle cerimonie per l’offerta dei prigionieri. Potrebbe anche essere stato un attore nelle loro esibizioni. Gli Statuti Ming (Ming huidiari) affermano che le sentinelle durante il procedimento erano le Guardie in Broccato, nientemeno che il corpo stesso di Shang Xi. i prigionieri venivano legati durante la presentazione. [47] Ad un certo momento della cerimonia, se ricevevano la grazia, venivano slacciati. I prigionieri senza grazia aspettavano di essere trasferiti nel santuario ancestrale e poi giustiziati. È nel teatro di una cerimonia di offerta che Pang De appare spogliato e legato in circostanze molto più umilianti di qualsiasi descrizione nella storia ufficiale dei Tre Regni o nel romanzo Sanguo zhi yanyi. In entrambi i racconti, Guan Yu uccide con riluttanza un coraggioso nemico che ammira. Guan Yu appare in questo dipinto in veste quasi imperiale come il capo officiante in una cerimonia di offerta dei prigionieri, ben distinto dal carnefice a cavallo che fa roteare la lama nelle illustrazioni della narrativa popolare.
Conclusioni
Un personaggio con le caratteristiche di Guan Yu tra le Storie buddiste di terracotta sulla pagoda Wenfei ad Anyang 安阳文峰塔砖雕佛教故事
Il fatto che Shang Xi abbia raffigurato il suo soggetto facendo riferimento sia allo storico Guan Yu che all’ancor più onnipresente Guan Yu del culto religioso testimonia la crescente posizione di una figura di culto le cui origini risiedevano nella religione popolare e il cui benessere ha attirato una crescente preoccupazione da parte dei funzionari governativi. Inoltre, il clima politico e militare dei tempi di Shang Xi potrebbe aver dettato molto della sua rappresentazione della punizione violenta per un pubblico ancora profondamente immerso nella cultura militare della prima società metropolitana Ming. Con ogni probabilità, Shang Xi possedeva una conoscenza diretta delle cerimonie militari della corte, e difficilmente avrebbe dipinto una visualizzazione così enfatica della violenza regolata dal governo per un pubblico che non esisteva. Infine, se un gruppo significativo all’interno del pubblico di questo dipinto era l’élite militare Ming, allora è importante riconoscere questo gruppo come parte del più ampio consumo sociale dell’arte che gli studiosi costruiscono nei discorsi sulla storia dell’arte della Cina. Anche se le dichiarazioni successive dell’élite alfabetizzata nel corso della storia cinese sostengono il predominio teorico di un’etica civile a scapito dei valori militari, la contestualizzazione offerta in questo saggio ristabilisce l’equilibrio a favore di un’opera che esprimeva la prospettiva militare con un’enfasi del tutto insolito. Ciò che ho sostenuto sopra è anche un tentativo di interpretare il significato del dipinto di Guan Yu di Shang Xi all’interno di aree del primo stato e della società Ming che finora hanno attirato poca attenzione da parte degli studiosi d’arte. Oltre a ciò che il dipinto rappresentava della storia dei Tre Regni e dei principali testi che raccontano quella storia, acquisì significato anche da forti riferimenti alle attività politiche, militari e rituali del periodo in cui fu creato. Forse perché i canoni consolidati della storia dell’arte in Cina interpretano l’arte come un dominio di influenze civilizzatrici in cui la violenza e la guerra non hanno un ruolo centrale, nessun critico ha ancora commentato ciò che è alla base dell’audace visualizzazione della cultura militare di questo dipinto. Questo saggio si è quindi concentrato su un’eccezionale produzione di pittura Ming per dimostrare che quello che molti hanno affermato – e ancora affermano – essere lo spazio militare morto delle priorità civili-militari era in realtà pieno di espressioni significative in primo piano nelle prime preoccupazioni artistiche Ming.
Note
28 Meir Shahar, Crazy Ji: Chinese Religion and Popular Literature, Cambridge Mass., Harvard University Asia Center, 1998.
29 Huang Huajie, Guan Gong [note 22]; see also Hong Shuling, Guan Gong minjian zaoxing zhi yanjiu: yi Guan Gong chuanshuo wei zhongxin de kaocha, Taibei, Taiwan daxue, 1995.
30 James L. Watson, “Standardizing the Gods: The Promotion of T’ien Hou (‘Empress of Heaven’) Along the South China Coast, 960-1960” in David Johnson et al. (eds), Popular Culture, op. cit.,, p. 323.
33 The other titles were: “Beheading General Yan Liang”; “Erection of the Yuquan Temple”; “Quelling the Demon Chi You” (Wang Shizhen, “You Ziqiu hua Guan jiangjun si shi tu”, Yanzhou shan- ren xugao, Taibei, Wenhai, 1970, 170, p. 10b-
12a). Cf. Diesinger, Vom General zum Gott, p. 201.
34 This image was discovered with other wood-cuts and texts at Heishui (Khara-khoto) in Gansu during excavations led by Kozlov in 1908-9. See Maria Rudova-Pshelina, “Dvye gravyuri iz Khara- Khoto”, Soobshcheniya gosudarstvennogo ordena Lenina ermitazha, vol. XXVIII (1967), p. 45-48; see also Diesinger, Vom General zum Gott, p. 202- 203.
35 Romeyn Taylor, “Official Altars, Temples and Shrines Mandated for All Counties in Ming and Qing”, T’oung-pao, 83 (1997) p. 94.
36 These scrolls are reproduced in Wu Liancheng (éd.), Baoning si Mingdai shuilu bihua, Beijing, Wenwu, 1985. For further comparanda in the partial set of scrolls located in the Musée Guimet, see Caroline Gyss-Vermande, “Démons et merveilles: visions de la nature dans une peinture liturgique du XVe siècle”, Arts Asiatiques, XLIII (1988) p. 106-122, in particular fig. I for the reproduction of scroll EO 684.
37 For a recent discussion of this body of work, see Lothar Ledderose, Ten Thousand Things: Module and Mass Production in Chinese Art, Princeton NJ, Princeton University Press, 2000, p. 163-85.
38 Craig Clunas, Pictures and Visuality in Early Modern China, London, Reaktion Books, 1997; see also Julia Murray “The Evolution of a Pictorial Hagiography in Chinese Art: Common Themes and Forms”, Arts Asiatiques, 55 (2000) p. 81-97.
39 Sanguo yanyi [note 4], ch. 74, p. 599.
40 Mingshi [note 7], 293, p. 7512.
41 Mingshi, 9, p. 117.
42 Mingshi, 2, p. 24.
43 Ming Taizu shilu, Taibei, Academia Sinica, 1961- 66, 161, p. 2492; and 216, p. 3180.
44 Mingshi, 6, p. 84-85; 7. p. 93, 96, 99 and 102.
45 Mingshi, 6, p. 82.
46 Shen Shixing, et al. (comps), Ming huidian, repr. 1587 edn, Taibei, Dongnan shubaoshe, 1989, 53, p. 23a.
Tradotto da Storti Enrico Dal saggio Violence Un-scrolled : Cultic and Ritual Emphases in Painting Guan Yu , scritto da Oliver Moore e pubblicato in Arts Asiatiques Année 2003 58 pp. 86-97
Fig. 1. «Guan Yu Cattura un Generale”关羽擒将图 , di Shang Xi, early fifteenth century, 200 x 237 cm. Palace Museum, Beijing
Introduzione
La maggior parte delle considerazioni su Guan Yu (165-220 d.C.) sono state discussioni storiche sulla sua posizione mitica e sull’ascesa del suo culto. [1] Più recentemente, la sua importanza è emersa negli studi sulla letteratura popolare, in particolare alla luce di ciò che la letteratura può rivelare sui culti. Nessuno di questi lavori ha ignorato del tutto la presenza di Guan Yu in stampe, dipinti e rappresentazioni plastiche, [2] ma la sua apparizione nella cultura visuale cinese merita maggiore attenzione. A tal fine, questo saggio si concentra su una rappresentazione di Guan Yu in un dipinto completato a Pechino all’inizio del XV secolo da Shang Xi (fig. 1). Gli storici della letteratura ora accettano l’importanza di comprendere l’apparizione di Guan Yu in “narrazioni multiple”, nel senso che analizzano il suo significato in accordo con i vari contesti dei resoconti letterari d’élite e delle recensioni semplificate dello stesso materiale creato per il mercato del libro popolare. [3] Il mio obiettivo è anche analizzare la molteplicità nelle sue condizioni visive. Cerco in particolare di definire il significato del dipinto di Guan Yu di Shang Xi come una rappresentazione che ha preso in prestito i suoi significati sia dai testi e dalle illustrazioni della letteratura popolare sia dalle immagini della divinità che dominava l’osservanza del culto di massa. Il pittore Shang Xi (morto prima del 1450) fu un pittore di corte di successo durante il regno dell’imperatore Xuande (1426-35). Il suo dipinto di Guan Yu, che ora si trova nelle collezioni del Museo del Palazzo di Pechino, è un rotolo senza iscrizione. Non è nemmeno documentato in fonti che elencano alcune altre opere di Shang Xi nella collezione imperiale Qing. La storia della sua commissione rimane quindi oscura. La violenza appena dissimulata della scena ne fa un rotolo insolito senza evidenti riferimenti ai dipinti Ming contemporanei nello stesso formato. Ma, poiché Guan Yu è stato per secoli una figura così gigantesca nella società cinese, altre arti dei Ming e dei periodi precedenti forniscono ricche intuizioni sui contesti e sui significati di questa particolare immagine. Questo saggio interpreta il significato della pittura di Shang Xi per un pubblico dei primi Ming, traendo le sue affermazioni non solo da considerazioni su Guan Yu nella storia dell’arte, ma anche dal suo significato nella narrativa popolare e nel culto religioso. La seguente discussione mostrerà prima come l’aspetto di Guan Yu in questo dipinto è profondamente radicato nelle immagini di culto e, in secondo luogo, sosterrà che l’intera composizione delle figure e la loro ambientazione si riferivano enfaticamente a un contesto contemporaneo del rituale militare Ming. Le tradizioni testuali e i resoconti orali su cui sono state costruite, erano cruciali allo scopo di far conoscere al pubblico le figure eroiche del passato. E, poiché il dipinto di Shang Xi mostra Guan Yu in un confronto che corrisponde a fonti storiche e letterarie, si può sostenere che le tradizioni testuali abbiano influenzato direttamente questa produzione visiva. Tuttavia, oltre a fornire all’artista argomenti di base, è dubbio che i testi abbiano ispirato opere come la pittura di Shang Xi nella misura in cui viene spesso affermato. Al contrario, come mostrerà questo saggio, le rappresentazioni visive potrebbero ugualmente dominare l’immaginazione letteraria e storica. La seguente analisi proporrà anche che qualsiasi interpretazione dell’immagine di Guan Yu di Shang Xi debba essere qualcosa di più di una semplice equazione del dipinto con i processi di illustrazione della narrativa Ming. Allo stesso modo, suggerirà che il significato del dipinto era più di una semplice espansione visiva – sebbene emozionante – di un testo storico comunemente letto durante la dinastia Ming. Dissociando in una certa misura il contenuto di questo dipinto da ciò che corrisponde nelle fonti letterarie, mostrerà che la storia del culto di Guan Yu offre spunti rivelatori sul significato del dipinto. Infine, la carriera di Shang Xi e altri aspetti della vita Ming contemporanea forniscono ulteriori approfondimenti sul significato della sua materia. La partecipazione di Shang Xi alla vita dell’esercito di palazzo getta una luce interessante su ciò che ha dipinto, soprattutto se considerato come una produzione per la prima società Ming il cui impegno nelle carriere e nelle attività militari era intenso. La società militare Ming e altri gruppi sociali avrebbero riconosciuto la forte allusione del dipinto ai rituali statali di punizione. Naturalmente, il rituale si sovrappone a un’enorme varietà di arte, manufatti e comportamenti durante qualsiasi periodo storico, ma, come sostiene l’ultima parte di questo saggio, il programma di osservanze cerimoniali del governo Ming fornisce un contesto performativo per “offrire prigionieri” che corrisponde molto da vicino La disposizione delle figure e dell’azione di Shang Xi.
Il dipinto
Guan Yu
Questo ampio rotolo di seta è intitolato dai suoi attuali curatori “Guan Yu cattura un generale” (Guan Yu qinjiang tu). Dipinto di grandi dimensioni (200 x 237 cm), raffigura la figura principale di Guan Yu vestita con una veste verde secondo l’iconografia più popolare del XV secolo e successivi.
Guan Ping
Siede più in alto del suo figlio adottivo Guan Ping, vestito di rosso, nel gesto di estrarre una spada.
Zhou Cang
In primo piano a sinistra, con in mano una lunga spada ad asta (Chunqiu Dadao), si trova Zhou Cang, uno dei principali comandanti subordinati di Guan Yu.
Pang De
Sotto di loro, i soldati maltrattano un prigioniero in difficoltà, il generale Pang De, e tentano di legarlo a un palo con cavi intorno ai polsi e alle caviglie.
Il confronto tra Guan Yu e Pang De è tratto da un famoso episodio della storia dei Tre Regni (222-265), quando lo stato settentrionale di Wei tentò di catturare l’area centrale dello Yangzi sottraendola al suo avversario sudoccidentale Shu. La storia ufficiale dei Tre Regni {San guo zhi), compilata da Chen Shou (morto nel 297), riferisce questi eventi. Così fa anche il Romanzo dei Tre Regni {San guo zhi yanyi), compilato da Luo Guanzhong (c. 1330-1400) durante la transizione Yuan-Ming e successivamente molto rimaneggiato e ripubblicato [4]. La riunificazione della Cina fu imperniata sul controllo indiscusso della zona centrale del Paese e le contese in quella regione furono prolungate, disperate e sanguinose. La figura principale di questo dipinto, Guan Yu, era il generale di campo più illustre del regime di Shu e un fedele servitore del suo sovrano, Liu Bei, un parente imperiale Han. Anche se la causa di Shu alla fine sarebbe fallita, il momento raffigurato in questo dipinto ha concluso una campagna che è andata a suo favore. Il prigioniero di Guan Yu, Pang De, era un generale di Wei. Guan Yu ha appena spinto nelle acque alluvionali di un acquazzone torrenziale le sue forze ammassate. Anche sulla scia di questo disastro, Pang De si rifiuta di sottomettersi all’autorità di Shu, e così Guan Yu ordina la sua esecuzione. Questi, quindi, sono i principali personaggi storici che questa immagine raffigura. Leggerlo esclusivamente come un dipinto storico, tuttavia, trascurerebbe sia la sua rilevanza per Guan Yu come figura di culto nel periodo Ming, sia la sua importanza come rappresentazione del potere militare Ming.
Shang Xi: La carriera e la produzione dell’artista
Immagine delle Guardie vestite di Broccato dell’epoca Ming
Solo a Pechino, capitale Ming, la vita e la carriera di Shang Xi 商喜 assumono un profilo distinguibile. Durante il regno di Xuande, se non prima, fu un pittore alla corte Ming di Pechino. Poco si sa della vita di Shang Xi nella capitale, ma la sua appartenenza alle Guardie Imperiali – l’unico dato disponibile per descrivere la sua carriera – potrebbe aver influito su ciò che dipinse. Shang Xi ha ricoperto l’incarico di Vice Comandante nelle Guardie vestite di Broccato (jinyi wei). Questo era un incarico abbastanza normale per i pittori approvati dal tribunale all’inizio dei Ming, che non sponsorizzavano un’accademia di pittura. [5] Sebbene fosse una sinecura comune per i pittori (una sorta di lavoro privilegiato o un appannaggio), il grado di comandante nelle Guardie era un titolo onorifico per anzianità ed anche un grado onorifico, nella Cina imperiale era portatore effettivo di potere e prestigio all’interno delle istituzioni a cui appartenevano. Le Guardie Vestite di Broccato erano il corpo di guardie d’élite della capitale. [6] La sua regolamentazione, a differenza di altri corpi di guardia, era speciale, in quanto era sotto il controllo del palazzo imperiale. Come la maggior parte delle guardie, tuttavia, manteneva i propri collegi militari per fornire istruzione confuciana e preparare i candidati per gli esami militari. [7] Questi fattori devono aver reso l’ambiente ufficiale di Shang Xi un mondo altamente autosufficiente all’interno della più ampia organizzazione del governo centrale cinese. E, come la discussione successiva mostrerà, questo mondo militare era un contesto formativo per la rilevanza del dipinto per la vita Ming del tempo. Da nessuna parte è dichiarato direttamente, ma sembra che l’appartenenza di Shang Xi alle Guardie in broccato sia diventata un’associazione celebrata e di successo. La scelta di suo nipote Shang Zuo del soprannome “Shang dell’abito di broccato” (Jinyi Shang shi), sarebbe stata certamente scelta per onorare un crescente legame familiare con questa sfera militare d’élite della vita di corte. [8]
Dipinto dei Quattro immortali salutano la lunga vita 四仙拱寿图
Shang Xi eccelleva chiaramente nelle grandi scene figurate, ed è ben documentato che eseguì tali composizioni per progetti murali in diversi templi dentro e intorno a Pechino. Di questi non si è a conoscenza che ne sia sopravvissuto alcuno. Le sue opere esistenti su seta e carta includono una cavalcata con l’imperatore Xuande, una scena di immortali taoisti che camminano sul mare, un episodio della vita di Lao Zi, nonché varie risposte alle richieste abituali della società elitaria di alberi, fiori e animali. [10] I cataloghi settecenteschi della collezione imperiale e le loro continuazioni ottocentesche includono sette dipinti di Shang Xi, ma non elencano alcuna immagine di Guan Yu. [11] Questi dipinti sopravvissuti e la documentazione di altri rappresentano solo una frazione conosciuta di ciò che Shang Xi ha prodotto durante la sua carriera. Tuttavia, ciò che sopravvive mostra abbastanza chiaramente che l’arte di Shang Xi includeva immagini di figure mitiche e religiose con specifici riferimenti all’autorità del potere temporale. Nel rappresentare Lao Zi, Shang Xi scelse un episodio apocrifo in cui il saggio si diresse verso ovest fuori dalla Cina solo per essere raggiunto e supplicato dai messaggeri reali di tornare a corte. [12] Allo stesso modo, nella sua immagine di Guan Yu, la visualizzazione del suo soggetto principale è integrata con l’esercizio del potere temporale. Cioè, proprio come la figura in carrozza di Lao Zi è ambientata nei gesti persuasivi di un’ambasciata reale, Guan Yu è posto al di sopra di una drammatica combinazione di azione e oggetti, che ha preso in prestito significato dagli atti rituali di punizione dei Ming.
Xuan Zong va a caccia 宣宗出猎图
La rappresentazione di Guan Yu di Shang Xi è stata oggetto di numerose discussioni che notano l’uso di pigmenti profondamente saturi per le figure comuni sia a questo dipinto che agli affreschi suoi contemporanei. L’intera composizione che fonde uno stile accademico di paesaggio di epoca Song dietro le figure policrome delle tradizioni murali. evocano una somiglianza generica del volto imperiale durante i primi regni Ming, [15] rappresentando un’iconografia specifica che gli artisti di corte adottarono per le pose e le espressioni insolitamente energiche mostrate nei ritratti degli imperatori Hongwu, Yongle e Xuande. [16]
Il catalogo che accompagna il debutto internazionale del dipinto alla mostra “Circa 1492”, tenutasi nel 1991, lo definisce un’espressione del mondo cinese del romanzo storico. [17] Certamente, la gestualità empatica e i brillanti costumi delle figure di Shang Xi e la loro disposizione spaziale richiama attori su un palcoscenico. L’azione della scena si sta avvicinando a un apice violento, che evoca i punti culminanti sanguinari nel dramma teatrale e nelle storie. Tali corrispondenze non sono insignificanti, soprattutto considerando che solo in epoca Ming le storie di Guan Yu divennero per la prima volta i soggetti più popolari del dramma storico. [18] Tuttavia, è innegabile che anche le produzioni letterarie con protagonista Guan Yu manifestavano l’esistenza del suo culto religioso, e hanno svolto un ruolo importante nella sua diffusione durante il periodo Ming.
Anche prendere in considerazione il culto di Guan Yu è cruciale, poiché lo stile e il formato di tutte le prime immagini sopravvissute di Guan Yu in qualsiasi contesto variano fortemente a seconda dei loro usi estremamente diversi. Comprendere la pittura di Shang Xi come un’immagine legata all’arte associata al culto di Guan Yu richiede una nuova considerazione del suo valore al di fuori degli immediati confini della tradizione letteraria del suo tempo. Le prove suggeriscono che il dipinto è davvero il più rappresentativo dell’immaginario cultuale.
Dipinto di epoca Ming di autore sconosciuto che riprende il tema di Laozi che viene fermato da emissari imperiali mentre è in procinto di andarsene ( 老子出关图)
Note
1 Inoue Ishii, “Kan U shibyô no yûrai narabi ni hen- sen”, Shirin, vol. 26, nos 1 and 2 (1941), p. 41-51, and 242-283 ; Masami Harada, “Kan U shinkô no ni san no yôso”, Tôhô shûkyô, vol. 8-9 (1955), p. 29-40; Prasenjit Duara, “Superscribing Symbols : The Myth of Guandi, Chinese God of War,” Journal of Asian Studies, vol. 47.4 (1988), p. 778- 795; Gunter Diesinger, Vom General zum Gott: Kuan Yii (gest. 220 n. Chr.) und seine “Posthume Karriere”, Frankfurt/Main, Haag & Herchen, 1984; Valerie Hansen, “Gods on Walls: A Case of Indian Influence on Chinese Lay Religion?”, in Patricia B. Ebrey and Peter N. Gregory (eds), Religion and Society in Tang and Sung China, Honolulu, University of Hawaii Press, 1993, p. 88-90. 2 The notable exception is the chapter discussing Guan Yu’s iconography contained in Diesinger, Vom General zum Gott, p. 187-237. This does not mention Shang Xi’s painting, which remained unpublished when Diesinger’s study appeared.
3 Anne E. McLaren, “Ming Audiences and lar Hermeneutics: the Uses of The Romance of the Three Kingdoms”, T’oung-pao, vol. 81 (1995) p. 51-80.
4 Sanguo zhi, Beijing, Zhonghua shuju, 1959, 18, p. 546; Sanguo zhi yanyi, pub. as Sanguo yanyi. Hong Kong, Zhonghua shuju, 1970, repr. 1973, 74, p. 293-98.
5 For the most recent discussion of Ming artists’ appointments to official positions, see Hou-mei Sung, “The Formation of the Ming Painting Academy”, Ming Studies, 29 (1990), p. 30-55.
6 For a detailed study of this corps, see Peter Grei- ner. Die Brokatuniform-Brigade (Chin-I wei) der Ming-Zeit von den Anfdngen bis zum Ende der Tien-shun Période (1368-1464), Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1975.
8 See the text of a seal on a painting of rocks and flowers by Shang Zuo, located in the Palace Museum, Taibei, painting cat. no. yi 02.10.00415 (Gugong shuhua tulu, Taibei, National Palace Museum, 1989, vol. 6, p. 175-6).
9 For Wang Shizhen’s (1634-1711) visit to the Sheng’an monastery south of the capital in 1680, and his notice of its mural paintings by Shang Xi, see Chibei outan, Beijing, 1982, 14, p. 345.
10 For a survey of Shang Xi’s most celebrated extant paintings, see Richard Barnhart, “The Return of the Academy”, in Wen C. Fong and James C.Y. Watt (eds), Possessing the Past: Treasures from the National Palace Museum, Taipei, New York, Metropolitan Museum and Taibei, National Palace Museum, 1996, p. 343-47.
11 “Arhats crossing the sea”, Bidian zhulin [Bidian zhulin, shiqu baoji: chubian, Taibei, National Palace Museum, 1971], 10, p. 126. “Eternal joy in old age”, ibid., 20, p. 206. «Herding buffalo beneath willows”, Shiqu baoji [Bidian zhulin, shiqu baoji: chubian, Taibei, NPM, 1971], 7, p. 438. “Cats at play”, ibid., 8, p. 651. «Immortals’ hall on Yingzhou”, Shiqu baoji [Bidian zhulin, shiqu baoji: xubian, Taibei, NPM, 1971], pt. 20, p. 1119. “Lone boat in the wide river at the old Chongyan pagoda”, ibid., pt. 75, p. 3629. “New year court assembly” (painted on paper), Shiqu baoji [Bidian zhulin, shiqu baoji: sanbian, Taibei, NPM, 1969], p. 1757.
12 For reproductions of this painting, see Richard Barnhart, “The Return of the Academy”, op. cit., p. 345, fig. 127; Stephen Little (éd.), Taoism and the Arts of China, Chicago, Art Institute of Chicago and Berkeley, University of California Press, 2000, p. 14, fig. 1.
13 Richard Barnhart et al., Painters of the Great Ming: The Imperial Court and the Zhe School, Dallas, Dallas Museum of Art, 1993, p. 40.
14 Richard Barnhart, “The Ming Academy”, in R. Barnhart et al. (eds), Mandate of Heaven: Emperors and Artists in China, Zurich, Museum Rietberg, 1996, p. 97. See also Craig Clunas, Art in China, Oxford and New York, Oxford University Press, 1997, p. 68.
15 R. Barnhart, “The Ming Academy”, p. 97.
16 Wang Cheng-hua, “Material Culture and Emperorship: The Shaping of Imperial Roles at the Court of Xuanzong (r. 1426-35)”, PhD thesis, Yale University, 1998, p. 195.
17 See Sherman Lee’s discussion in J.A. Levenson, Circa 1492: Art in the Age of Exploration, Washington DC, National Gallery of Art, and New Haven, Yale University Press, 1991, p. 433-434 (cat. no. 287); and Craig Clunas, Art in China, p. 68-69.
18 Wilt L. Idema, “The Founding of the Han Dynasty in Early Drama: the Autocratic Suppression of Popular Debunking”, in W.L. Idema and E. Ziir- cher (eds), Thought and Law in Qin and Han China, Leiden, E.J. Brill, p. 183-207.
Dal saggio Violence Un-scrolled : Cultic and Ritual Emphases in Painting Guan Yu , scritto da Oliver Moore e pubblicato in Arts Asiatiques Année 2003 58 pp. 86-97
Statua del dio Guandi presso la camera di commercio dello Shaanxi a Liaocheng
L’evidenza più remota di un culto di Guan Yu si riferiscono al suo ruolo di guardiano di una montagna nel sesto secolo. I monaci buddsti locali in seguito si fecero carico di questo culto e riconobbero Guan Yu come protettore del loro monastero. Nel corso dei quattro secoli successivi il suo rango lentamente aumentò di importanza. Egli non fu la divinità della guerra principale durante la dinastia Tang [19] ma durante la dinastia Song, in un periodo di stato di guerra quasi permanente con i nemici del nord, il culto diventò molto importante. Significativamente, Huizong (1101-1127), che fu molto meno inetto militarmente di quello che i giudizi successivi lo condannarono ad essere, promosse vigorosamente il culto di Guan Yu.
Guan Ping
Una leggenda che associa Guan Yu con il suo figlio adottivo Guan Ping come figura di collegamento dello stesso culto era documentata durante la dinastia Song del Sud. [20] In seguito i Mongoli adottarono Guan Yu come propria divinità della guerra ufficiale, ma sarà sotto i Ming che si verificherà la vera esplosione dell’adorazione di Guan Yu. Ciò fu in larga parte dovuto alla politica fondante del governo Ming di tollerare i culti popolari, che di ritorno fu ripagata con una larga base di supporto. [21] Nel 1388 il governo abolì l’osservanza statale nei confronti del Re Wucheng, fino ad allora in epoca Ming il correlativo militare al culto di stato di Confucio. Questa abolizione, qualche decade precedente al completamento del dipinto di Shang Xi, contribuì alla notevole ascesa di Guan Yu nelle osservanze rituali officiali. In prossimità della fine della dinastia, nel 1615 o è possibile prima, il governo elevò Guan Yu al suo status più elevato di tearca con il titolo di “Guandi”. [22]
L’ascesa di Guan Yu fu anche grazie alle credenze popolari nella sua efficacia come divinità che rispondeva alle sollecitudini militari di punizione e lealtà. Resoconti sulle apparizioni di Guan Yu sui campi di battaglia divennero innumerevoli nel corso dei secoli Ming e Qing. Una visione riportata durante una delle campagne dell’imperatore Yongle contro i Mongoli è tipica: Guan Yu apparve a intermittenza sopra le steppe attraverso le quali l’esercito cinese avrebbe dovuto marciare. [23] Tali miracoli venivano spesso ripagati con energici programmi di costruzione di templi nella capitale. Inoltre Guan Yu non era solo un dio della guerra. Egli attrasse offerte come divinità della letteratura e coloro che si apprestavano ad intraprendere gli esami per il servizio civile credevano in lui come un efficace patrono delle loro speranze di carriera. [24] Sul finire dei Ming egli divenne un dio della ricchezza e del benessere. [23] E, sebbene la loro documentazione risalga ai Qing, i riti di iniziazione delle società segrete spesso invocavano l’autorità di Guan Yu per atti rituali compiuti davanti ai suoi altari. [26]
19 David McMullen, “The cult of Ch’i T’ai-kung and T’ang Attitudes to the Military”, Tang Studies 7 (1989) p. 59-103, esp. 102-103.
20 Zhipan (comp., AD 1269), Fozu tongji [Taishô shinshù daizôkyô, vol. 49, no. 2035], 6, p. 183B.
21 Daniel Overmyer, “Attitudes Toward Popular Religion in Ritual Texts of the Chinese State: the Collected Statutes of the Great Ming”, Cahiers d’Extrême-Asie, vol. 5 (1990) p. 191-221.
22 For the dating of this elevation to 1615, see Duara, Superscribing Symbols [note 1], p. 783; for earlier instances of the title di, see Huang Huajie, Guan Gong de ren’ge yu shen’ge, Taibei, Shangwu yinshuguan, 1967, p. 139-41.
23 Liu Tong and Yu Yizheng, comps, Dijing jingwu lue, Beijing, Beijing guji, 1980, 3.97.
24 For documented cases in the late Ming, see Benjamin Elman, A Cultural History of Examinations in Late Imperial China, Berkeley, University of California Press, 2000, p. 302-304, 315
25 Duara, p. 783; see also Evelyn Rawski, “Problems and Prospects” in David Johnson, Andrew J. Nathan and Evelyn Rawski (eds), Popular Culture in Late Imperial China, Berkeley, University of California Press, 1985, p. 410.
26 Barend ter Haar, Ritual and Mythology of the Chinese Triads, Leiden, E.J. Brill, 1998, p. 109, 126, 137; on Guan Yu’s role as a witness to blood covenants, see p. 162, 169, n. 56 and p. 191-3.
Tradotto da Storti Enrico dal libro Les arts martiaux: regards critiques et perspectives de recherche” p 92, di Olivier Bernard
Manoscritto di epoca Qing intitolato Quanshu
All’inizio del ventesimo secolo, le arti marziali cinesi erano conosciute in Cina con i nomi generici Wushu, Kungfu, quanfa o quanshu. I termini Wushu ( tecniche marziali) e Kungfu ( termine vernacolare Cantonese che significa “lavoro”[3]) sono generalmente utilizzati oggigiorno in riferimento alle arti marziali cinesi in maniera generica e più particolarmente alle arti marziali dette “esterne”. Nonostante ciò, dalla dinastia Ming (1368-1644) fino a metà del diciannovesimo secolo, si faceva riferimento più comunemente alle denominazioni quanfa (拳法, kenpo/kempo in giapponese, kwonbop in coreano) e quanshu (拳术) per designare esclusivamente le tecniche a mano nuda. Progressivamente, sotto l’influenza di un certo numero di fattori che noi elencheremo qui, questi due termini, durante la dinastia Qing, vennero a designare il “pugilato” (nel senso di “pratica che utilizza delle tecniche per colpire con mani e piedi), poi le arti marziali cinesi.
In origine, quanfa (拳法) e quanshu (拳术) si collegavano al termine quan (拳: pugno/ mano chiusa/ tenere sollevando)- che ha preso maggiormente oggi, nel contesto delle arti marziali cinesi, il senso di “pugilato” – e al quanbo (拳博), termine che Gilles (1906) tradusse in “colpire con i pugni e aggrapparsi” . Questa traduzione fece in parte da base alla percezione occidentale delle arti marziali sino-asiatiche come metodi di “pugilato”, cioè come metodi di combattimento basati su tecniche di colpi piedi-mani. Tuttavia, similmente al nome Shoubo[4] (手博), comunemente tradotto con “colpire con le mani” (Weng, 2001), “combattimento a mano nuda”, o “lotta a mani nude”, il termine quanbo (拳博) da ugualmente luogo a una polisemia che potrebbe portare ad una confusione sulla natura delle pratiche altrimenti racchiuse in questa denominazione.
Lotta in epoca Ming
Le apparizioni del termine nella letteratura anteriore al ventesimo secolo sono relativamente rare, l’interpretazione del termine quanbo (拳博) può, legittimamente, essere fatto oggetto di discussione e dovremo, esprimere alcune riserve a proposito della legittimità di qualsiasi interpretazione definitiva del termine. Se il carattere 博 (bo) è oggi frequentemente tradotto in “colpire” o “combattere”, nelle sue principali accezioni più utilizzate a partire dalla Dinastia Míng ed ancora in vigore ai giorni nostri, include ugualmente il senso di “lottare” [5] (Li, 2015), oltre che quello di “afferrare ” (MDBG, 2015), cosa che si avvicina alla pratica di una forma di lotta. Il carattere 博 (bo) prende quindi nel complesso il senso di “lottare”, “combattere”, “colpire”, “afferrare” e “prendere”. La denominazione Quan (拳) presenta anch’essa un caso relativamente simile, poiché nonostante delle accezioni moderne e contemporanee più utilizzate del termine, cioè quelle di “pugno”, di “mano chiusa” e di “pugilato” nel diciannovesimo secolo, essa include ugualmente e tradizionalmente il senso di “tenere sollevando” (Theobald, 2011). Avremmo quindi il diritto di domandarci se questa diffusione dell’utilizzo di 拳 (quan) nel significato di “pugilato” non sia stata in effetti conseguente alla traduzione di Giles (1906) o ad altre interpretazioni in voga in Cina nel diciannovesimo secolo.
Nota del traduttore/in realtà i primi ad usarlo in questa accezione furono i missionari cristiani e i giornalisti che descrissero la famosa rivolta anti-occidentale del 1900, rendendo Quan in pugili a partire da quanfei 拳匪/
Esecuzione di un pugile bandito a Baoding
Questa esistenza di un utilizzo del termine Quan (拳) nel senso di “tenere sollevando” potrebbe tuttavia portarci a rimettere in questione l’interpretazione del termine quan nella sua accezione attuale più usitata, e conseguentemente l’interpretazione delle pratiche che gli afferiscono. Certe osservazioni di ordine tecnico che noi affronteremo ulteriormente, così come il fatto che non esiste alcuna prova formale che, da una parte, il termine quan abbia mai significato “boxe” o “pugilato”, e ciò fino al diciannovesimo secolo; d’altra parte le pratiche raggruppate sotto la denominazione quan e trasmesse attraverso le concatenazioni a mano nuda siano mai state delle forme di boxe o di pugilato, sembrano appoggiare questa idea. Queste osservazioni potrebbero, per questa ragione, condurci a formulare l’ipotesi secondo cui la denominazione quan sarebbe servita non a designare delle forme di pugilato, ma delle forme di “lotta per afferramenti” ; il termine quan sarebbe esso stesso da prendere molto probabilmente in questa accezione fino all’inizio del diciannovesimo secolo. Come noi vedremo ulteriormente, questa ipotesi sembrerebbe essere confermata dal contenuto tecnico menzionato in certe opere della Dinastia Míng e della prima metà della Dinastia Qīng che fanno riferimento alla pratica (Sahar, 2008)
Per deduzione a partire dall’ipotesi precedente, è possibile estrapolare che a partire dalla fine della Dinastia Míng (1368-1644) e fino al diciannovesimo secolo, quando si parlava di quanfa (拳法) si intendeva “metodo di afferramento/ presa” di cui compaiono le prime menzioni verso la fine della Dinastia Míng, e di quanshu (拳术), che significava “tecnica di afferramento/ presa”. I quanshu (拳术), “tecniche di afferramento/ presa”, verranno codificate sotto forma di concatenazioni permettendo di facilitarne la diffusione e la trasmissione, le quali presero a volte il nome di quantao e più recentemente di Taolu, riunite in seno al quanfa (拳法), “metodo di afferramento”. Dobbiamo notare che il termine quanfa (拳法), che serviva originalmente a designare il sistema di tecniche, è venuto progressivamente ad essere utilizzato per designare le concatenazioni delle tecniche stesse – come nel caso della lingua coreana con il termine kwonbop- e ciò, dal fatto che all’origine una sola e stessa concatenazione serviva probabilmente a raggruppare le tecniche proprie di ogni stile ed insegnante/vedi l’idea di Jiazi nel Méihuāquan/.
Nonostante il carattere evidente di polisemia dei numeri dei termini precedenti, sembra tuttavia interessante constatare che pochissimi autori si siano interessati su una possibile necessità di rimettere in questione le traduzioni in vigore da più di un secolo e le percezioni e le interpretazioni attuali delle pratiche raggruppate sotto il suffisso -quan, prendendo di fatto per argento colato che racconta di una credenza popolare dogmatica che considera ostinatamente le pratiche come metodi di pugilato o di boxe, e, molto più raramente, come dei metodi di lotta. Questa differenza di interpretazione, per delle grafie univoche, e più ancora per la traduzione fornita da Giles (1906) del termine quanbo (拳博) come “colpire con i pugni e afferrare” (fisting and gripping) puramente, in effetti, spiega in parte i differenti orientamenti moderni nella percezione e nell’interpretazione del contenuto tecnico delle concatenazioni a mano nuda contenute nelle arti marziali sino-asiatiche. Sono questi stessi orientamenti che hanno influenzato, da più di un secolo, la visione moderna occidentale, allo stesso modo asiatica, delle arti marziali.
Nota del traduttore /Mi sembra un discorso riduttivo, basti pensare al karate che è interamente una pratica a mano nuda, mentre i sistemi cinesi solitamente si avvalgono di una preparazione che pur iniziando a mano nuda, sfocia ed è sublimata poi nell’uso delle armi, proprio come descritto da Qi Jiguang. Quindi quan, riferito ad una scuola è differente da quan riferito ad un esercizio, cosa che non emerge da questo scritto. Quindi quan può anche essere un sistema di combattimento completo, che prepara tutte le tecniche che servono alla battaglia, piuttosto che a una lotta tra individualità./
La confusione attuale che concerne il significato esatto di quan potrebbe, oltre il possibile effetto che mette insieme una semplice percezione erronea e un errore di traduzione di Giles (1906) che sarebbe legata alla perdita del senso originario del termine, attinente a numerosi altri fattori, i quali sarebbero sia sociolinguistici sia sociostorici. Il primo fattore da sottolineare è la perdita del contesto sociolinguistico relativo all’ambiente culturale inerente a queste forme di lotta. Questa perdita potrebbe avere così, sotto l’effetto di differenti avvenimenti sociostorici tra cui il cambiamento culturale legato alla dominazione mancese, condotto i termini a perdere le connotazioni che li associavano al contenuto tecnico delle pratiche. L’utilizzo, a partire dal fatto della loro facilità di apprendimento
Nota del traduttore/anche qui secondo me parla dei Kata giapponesi/
di sole concatenazioni da parte degli istruttori militari o civili provenienti da differenti curricula – citiamo qui le milizie del Baojia o i movimenti eterodossi politico-religiosi quali la società dei lunghi contelli (Dadaohui) o la società del fiore di pruno (Meihuaquan)[6] – con un obiettivo promozionale o didattico in vista della formazione di reclute militari o civili, potrebbe ugualmente aver condotto parzialmente, a partire dai secoli diciassettesimo e diciottesimo, alla volgarizzazione di questi ultimi fuori dal loro contesto socioculturale e tecnico originale, causando, così, una scomparsa progressiva del loro significato primevo.
Particolare di un rotolo opera di Qiu Ying (dinastia Ming) conservato nel museo nazionale di Taiwan
Nota del traduttore/ in questo punto si denota la contraddizione di chi scrive, infatti quando traduce sia hui 会 di Dadaohui che quan 拳 di Meihuaquan, come società secondo me commette un grande errore. È proprio l’utilizzo di quan per indicare sia “scuole di arti marziali” che concatenazioni di tecniche che rende impossibile parlare semplicisticamente di Lotta. Anche “Lotta” come Pugilato ha nelle lingue occidentali un accezione molto precisa che non permette di dare il senso completo di quan come scuola di arti marziali che insegna tecniche a corpo libero e tecniche con armi./
Il secondo fattore d’importanza è il fatto che le competizioni di quan o di lotta sino-mancese nate durante la dinastia Qing -come quelle di Tianjin e di Beijing[7]- , con cui metodi di quan potrebbero ugualmente essere stati integrati[8] e associati – come nel caso dello Xingyiquan e del Tongbeiquan – , hanno autorizzato le tecniche di percossa di mani e piedi. Questo fattore ha molto probabilmente contribuito a una percezione progressiva di quan/quanbo come sistemi di boxe o pugilato, dando ugualmente i natali a una certa immagine delle arti marziali cinesi, poi sino-giapponesi e sino-asiatiche, e più particolarmente alle tecniche a mano nuda. Ulteriormente rinforzata dall’immagine positiva e l’influenza degli sport, più precisamente il pugilato occidentale, questo fenomeno potrebbe aver condotto allo stesso modo, come nel caso del wingchun o delle forme cinesi di Okinawa che diedero vita al karate, a percepire o a trasformare intenzionalmente i quanshu in tecniche di percossa.
Fu in egual modo sotto l’influenza di questi differenti fattori, oltre al fatto che l’associazione di tecniche con le armi agli stili di combattimento a mano nuda da parte di certi praticanti e istruttori con l’obiettivo della preparazione militare, che il quanshu, verso la fine della Dinastia Qīng, sarebbe finalmente diventato un termine generico per designare il pugilato e le arti marziali cinesi. All’inizio del periodo repubblicano, divenuto troppo ampio di significati e portatore di connotazioni della Dinastia Qīng, il termine quanshu sarà rimpiazzato dal termine ufficiale Guoshu (国术, tecniche nazionali), i termini Wushu e Kungfu (nel sud della Cina) sono tutt’ora utilizzati in maniera vernacolare. Dopo l’avvento della repubblica popolare in Cina continentale, Guoshu, erede dei valori della repubblica nazionalista, sarà a sua volta rimpiazzato dall’antico termine Wushu.
Note
[3] A proposito del termine Kungfu (lavoro) avremmo il diritto di domandarci se l’occorrenza del termine nel contesto delle arti marziali non fosse legato a una volontà di derisione e ciò, dalla sua vicinanza fonetica con i termini quanfa (拳法) e quanshu (拳术), e più specificatamente nelle regioni del sud della Cina, in cui usano questi tipi di giochi di parole.
[4]Il termine conosciuto fin dalla dinastia Song (960-1279) si riferisce ad una pratica antica frequentemente considerata come una forma di pugilato o di lotta.
[5] L’utilizzo del termine in questa accezione si ritrova in un gran numero di termini compositi legati alla lotta, come la denominazione xiangbo (相搏), che significa “lottare/combattere con l’altro” ed utilizzato a partire dalla Dinastia Qin per riferirsi alla lotta (Tong e Cartmell, 2005), e boke (博客), in cui bo (博) significa “lottare”, “combattere” o “afferrare” e (客) “rovesciare”, “dominare” o “sottomettere” (MDBG, 2015), comunemente impiegato per riferirsi alla lotta mongola, anche detta buku.
[6] Il Meihuaquan, più conosciuto alla fine del diciannovesimo secolo con il nome di Yihequan (Yihetuan o Ihochuan), fu un movimento eterodosso opposto alla dinastia Qing. /Un discorso parziale e riduttivo che non rende la complessità e tutte le posizioni politiche del Meihuaquan che nella sua maggioranza si dimostrò lealista ai Qing, anche il successivo riferimento allo Shandong, dimostra una scarsa conoscenza da parte dell’autore a proposito di questo stile/ Istituito nella regione dello Shandong, relativamente difficile da controllare da parte del potere imperiale, era celebre per l’utilizzo di quan, riconosciuto per i suoi riti e il suo processo di promozione, di reclutamento e di allenamento dei suoi membri (Xiang, 2003)
[7] Le denominazioni Tianjin e Beijing fanno riferimento a degli stili di lotta cinesi (shuai Jiao) che portano il nome delle città in cui sono praticati. Questi ultimi costituiscono due dei quattro principali stili di lotta cinese: gli altri due sono il Baoding (anche detto kuaijiao o “lotta rapida”, conosciuto per aver integrato le tecniche di Shaolinquan) e lo stile Mongolo.
[8] Durante la dinastia Qing, il potere imperiale, che portò maggior interesse alla pratica della lotta, come pratica ricreativa, sportiva o militare, si è notamente impegnato a modenizzare la lotta Mancese (buku o boukou) associandovi differenti forme di lotta praticate in Cina; ci furono integrate anche delle pratiche etniche o regionali quali le lotte hakka o tibetane, che hanno, molto probabilmente, influenzato l’apparizione o la trasmissione del quan.
Un discepolo appartenente all’associazione in Danbian
Questo è un lignaggio del Meihuaquan dell’area di Guanxian fornito da un associazione locale. Il lignaggio era molto più ricco e comprendeva generazioni fino alla diciannovesima. Interessante la presenza di Yang Sihai che ritroviamo anche in un famoso lignaggio di Yang Bing e che è stato un importante esponente del Dahongquan e degli Yihequan.
Shi Ruijie a destra, durante la trasmissione Wulin Dahui
Uno dei lignaggi del Meihuaquan che più mi incuriosisce è quello di Weixian. Secondo le scarne informazioni che sono riuscito a ottenere fino ad oggi, in questa area sono diffuse almeno tre ramificazioni: Dajia (che fa riferimento direttamente alla terza generazione Zou Hongyi), Xiaojia (che fa riferimento a Zhang Congfu dell’ottava generazione) ed un ramo che si fa risalire a un maestro di cognome Zhang (detto genericamente Zhang Shiye) appartenente alla quinta generazione. Oltre al lignaggio, non è chiaro quali siano le differenze di quest’ultimo ramo rispetto alla xiaojia, visto che Shi Ruijie, un maestro contemporaneo molto conosciuto insegna un jiazi quasi identico al xiaojia. Di recente è stato pubblicato un video che riporta il suo lignaggio e che però risulta mescolato a quello di Han Qichang visto che questo maestro vi è inserito alla sedicesima generazione.
Quando si descrive il Meihuaquan di questa area si ricorda che da qui provenivano Li Tingui 李廷桂 che ha diffuso il Meihua a Wuqiang (da qui il collegamento con Han Qichang) e Zhao Sanduo leader degli Yihequan. Li Tinggui è quindi presente nel lignaggio tramandato a Wuqiang a cui appartiene anche Han Qichang, però nelle parti di lignaggio del Ramo Zhang di Weixian non sembrano esserci, fatto curioso, altre corrispondenze con quello di Wuqiang. Questo è ciò che sono riuscito a ricavare dal video:
tradotto da Storti Enrico da The Authentic Person as Ideal for the Late Ming Dynasty Physician Daoist Inner Alchemy in Zhang Jiebin’s Commentary on the Huangdi neijing. Original Paper UDC [133.5:221.3]:61(510)“15/16” Received January 7th, 2013 , Leslie de Vries University of Westminster, EASTmedicine, Room N3.110, Copland Building 115, New Cavendish Street, UK–W1W 6UW London l.devries@westminster.ac.uk
Traduzione integrale del titolo: La Persona Autentica come ideale per l’alchimia taoista interna della medicina della tarda dinastia Ming nel commentario di Zhang Jiebin sul Huangdi Neijing
Lu Yan 呂岩, forse più conosciuto come Lu Dongbing 呂洞宾
Nell’ultima parte di questo scritto, darò uno sguardo serrato alle spiegazioni di Zhang Jiebin sulle pratiche di auto coltivazione e dove queste pratiche potrebbero condurre. Come si può vedere nella Tavola 1, Zhang fa una distinzione tra la pratica del ristabilimento dell’autenticità (xiuzhen zhi dao) e le pratiche di nutrimento vitale (yangsheng zhi fa). Durante la dinastia Ming, il ristabilimento dell’autenticità dovrebbe essere inserito nel contesto dell’alchimia interna Daoista. Ciò è dimostrato dall’inclusione di alcuni versi presi da un poema attribuito a Lu Yan, patriarca dei lignaggi di alchimia interna sia del sud che del nord. D’altro canto, nello spiegare la pratica del nutrimento vitale, che più neutrale e non necessariamente collegata all’alchimia interna, Zhang cita altresì un testo base dell’alchimia interna: l’intero Taixi jing con l’appendice Taixi ming. Così, nella sua spiegazione dell’importanza di essenza, Qi e spirito in relazione sia con xiuzhen e yangsheng, è evidenziato il legame con l’alchimia interna.1
due pagine da una copia manoscritta del Taixijing 胎息经
Tuttavia, pratiche correlate a essenza, Qi e spirito si trovano certamente non esclusivamente nell’alchimia interna. Esse si originarono nella Cina antica e precedono l’alchimia interiore in quanto tale.2 Per esempio, il contenuto del testo di Bai Juyi (772– 846) a cui Zhang si riferisce spiegando le tecniche respiratorie praticate da due leggendari immortali, Wang Qiao e Pino Rosso (Chi Song), si trova già nel Huainanzi. Anche la citazione che spiega che “il metodo di coltivare lo spirito è la tranquillità” è presa dal Huainanzi.3 Ciò che è più specificatamente dai successivi testi di alchimia interna e non trovabile nei testi antichi Daoisti, è per esempio l’idea del rapporto tra il trigramma Kan (acqua) e Li (fuoco), nella spiegazione della citazione presa dal Qimitu.4
Schemi degli otto trigrammi Prima del Cielo 先天八卦 e Dopo il Cielo 后天八卦
Zhang Jiebin distingue inoltre la pratica di essenza, Qi e spirito in allenamento xing (natura interna 性) e Ming (vita 命), così come fatti nelle due principali tradizioni di alchimia interna.5 Le pratiche legate allo spirito sono considerate come allenamento xing, tanto quanto quelle legate all’essenza e al Qi sono considerate come allenamento Ming. Tuttavia, l’essenza, il Qi e lo spirito (o Ming e xing) formano un legame indissolubile e non possono mai essere separati.6 Zhang Jiebin spiega:
“Sebbene lo spirito è prodotto dall’essenza e dal Qi, esso è anche [la cosa] da cui essenza e Qi sono controllati e condotti, ed è chi governa la loro applicazione (yunyong zhi zhu). È lo spirito che è localizzato nel nostro cuore. Se questi tre [essenza, qi, e spirito] sono uniti come fossero uno, ciò può essere chiamato la Via!”7
Grafico della Restaurazione della Verità Xiuzhentu 修真图
Alla fine del suo commento su essenza, Qi e spirito in relazione alla Persona Autentica, Zhang fornisce un aiuto introduttivo alla pratica. Egli controbatte all’opinione diffusa che limitare i desideri sessuali (jin yu) era sufficiente per nutrire la vita.
“Essi [la gente del suo tempo] non sanno che se c’è un movimento aberrante (wang dong) di cuore, il qi è disperso dal seguire il cuore. Quando il Qi è disperso invece che raccolto, l’essenza è espulsa ed il Qi è perduto.”8
Dopo ciò, egli si riferisce al buddista Sishi’er zhang jing (Sūtra in quarantadue sezioni):
“Dare un taglio ai desideri sessuali (duan yin) non è buono quanto dare un taglio al cuore. Il cuore è l’ufficiale che fa lo sforzo (gong cao). Se tu sei in grado di fermare il responsabile, i seguaci cesseranno tutti le loro irregolarità (xie). Quando il cuore non è fermato, che benefici avrò nel tagliare via i desideri sessuali?”9
Pratiche più specifiche si trovano nel quarantunesimo sottocapitolo della categoria “Fasi Cicliche e Influssi Stagionali”(Yunqi) a cui Zhang fornisce un riferimento incrociato. In questo sottocapitolo noi troviamo un passaggio dell’apocrifo SW 7210 in cui la “ritenzione del respiro” (bi qi)11 e la “deglutizione del fluido del Qi”(yan qi jin) sono menzionate come metodo che può essere praticato nel caso di un disordine dei reni perdurante.12 Zhang Jiebin all’inizio indica che questo è un metodo di “nutrimento del Qi e di costruzione del ritorno all’essenza”(yang qi huan jing). Dalla deglutizione della saliva le radici della vita possono essere rinforzate. O, come affermato in un vecchio commento a cui Zhang fa riferimento:
“Gli alchimisti Daoisti (xianjia) deglutiscono il Qi. Essi lasciano che il gorgoglio nella loro pancia arrivi sotto l’ombelico. Il Qi del bambino (zi qi) vede il Qi primordiale della madre (mu yuanqi). Perciò, ciò è chiamato ‘capovolgersi alla radice e tornare all’origine ‘(fanben huanyuan).”13
In più, Zhang aggiunge una lunga spiegazione, intitolata ” Metodo di Guidare e Tirare” (Daoyin fa).14 Ancora, egli sottolinea l’importanza dell’essenza e del Qi in qualità di radice della vita (Ming) e lo spirito in qualità di controllore della vita (xing). Egli fornisce anche tre esercizi respiratori che possono servire come metodi introduttivi.15 Zhang spiega inoltre come e quando questi esercizi possono essere praticato e che risultato ci si possa aspettare:
“Quando il corpo nella sua interezza è completamente [come] la Via (yi shen jie dao), che ostruzione (zhi) ci sarà ancora? Dopo che essa sarà diventata più sottile attraverso il lungo tempo di pratica, allora essa onestamente non sarà stoppata dallo scacciare le malattie!”16
Più dettagli sui risultati sono forniti in una citazione del “Metodo di Ritenzione del Respiro” (Biqi fa) attribuito alla figura leggendaria di Pengzu, che si suppone abbia vissuto ottocento anni ed è associato alle tecniche di longevità. I risultati della pratica di questa tecnica sono descritti come segue:
“Quando una piuma d’oca viene messa sul naso, non si muove più per trecento respiri.BLe orecchie non hanno nulla che sentono, gli occhi non hanno nulla che vedono e la mente non ha nulla a cui pensare. Freddo e caldo non possono entrare. Vespe e scorpioni non possono pungere il loro veleno. Uno vive centosessanta anni e si avvicina allo stato di Persona Autentica (lin yu zhen-ren).”17
Per Zhang Jiebin, diventare una Persona Autentica era quindi un’ambizione genuina e dovrebbe essere vista nel contesto dell’alchimia interiore. Zhang fa notare che l’oscura terminologia usata nei testi alchemici interiori si riferisce fondamentalmente a far alzare il qi (ti qi), il respiro (huxi), i fluidi (jinye), ecc.18 Sebbene ci siano molti nomi e pratiche, secondo Zhang esiste un principio di base: “ciò che esce è meno di ciò che entra” (chu shao ru duo).19 Questo principio ricorre già in testi come il Baopuzi, e si riferisce alla respirazione embrionale.20 Lo scopo di questo esercizio di respirazione nel Baopuzi, che precede la maturazione dell’alchimia interiore, era anche “generare e nutrire la propria perfezione o realizzazione (zhenren) ‘santo embrione’ (shengtai)”.21
Si potrebbe sostenere che la maggior parte delle pratiche a cui si riferisce Zhang Jiebin sono solo mezzi introduttivi e non dovrebbero essere considerate alchimie interiori. Per quanto possibile, è innegabile che secondo Zhang la medicina e l’alchimia interiore (indicata come xiandao) sono strettamente correlate tra loro. Oppure, per usare le sue parole:
“La via della medicina si collega con la via dell’immortalità (yidao tong xiandao). Questo è molto importante. Quando senti questo, non dovresti considerarlo un’eresia, o che lo dica per scherzo».22
Conclusioni
È impossibile provare che lo stesso Zhang Jiebin praticasse l’alchimia interiore Daoista. Era un “(neo-)confuciano”, o meglio uno “studioso”, medico (ruyi) in primo luogo. Come medico, le aspirazioni religiose del praticante dell’alchimia interiore non furono probabilmente la sua prima preoccupazione. Zhang viveva nel mondo degli esseri umani comuni e praticava la virtuosa professione della medicina.
Tuttavia, ha riconosciuto l’importanza del Daoismo soprattutto nei suoi commenti sui principi di coltivare una vita lunga e sana. È innegabile che i suoi riferimenti al Daoismo non sono solo alcuni abbellimenti nel testo. Questo diventa chiaro quando si analizza il suo commento sul secondo passaggio che descrive la Persona Autentica alla fine del SW 1. Primo, Zhang Jiebin aveva letto a fondo i principali testi alchemici interni. Sottolinea l’importanza di testi come il Taixi jing, il Jindan dayao, le opere di Zhang Boduan, ecc., per spiegare l’essenza, il qi e lo spirito. In secondo luogo, la comprensione di Zhang del qi xiantian è più profonda ed elaborata rispetto agli scritti neo-confuciani “ortodossi” e presenta forti somiglianze con le idee espresse in testi come il Jindan dayao. Terzo, Zhang Jiebin si riferisce a esercizi specifici. Questi esercizi non sono solo tecniche di prevenzione della salute. Sebbene le tecniche descritte nel Leijing siano solo mezzi introduttivi, non mirano solo a dissipare la malattia, ma portano anche all’obiettivo soteriologico di diventare una Persona Autentica. Per Zhang Jiebin, medicina e Daoismo non erano percorsi divergenti. Se un medico alla fine della dinastia Ming voleva comprendere appieno gli ingredienti principali della vita stessa, doveva, almeno secondo Zhang Jiebin, tenere conto delle spiegazioni e delle pratiche alchemiche interiori Daoiste.
Note
1 solo quando Zhang spiega il modo per nutrire il proprio corpo (yang shen zhi dao), si riferisce al Piwei lun medicale di Li Gao.
2Fabrizio Pregadio e Lowell Skar chiamano il periodo prima della dinastia Tang la “fase embrionale” dell’alchimia interna. Essi collocano il “neidan primitivo” nei Tang. Pregadio e Skar, 465.
3Huainanzi, in Guoxue zhenglishe, Zhuzi jic-heng, 7:23.
4sull’utilizzo di questi trigrammi nella alchimia interna, vedi Robinet, “Original Contributions of Nei-dan to Taoism and Chinese Thought,” 312– 314. La Robinet ha caratterizzato i testi di alchimia interna come segue: 1. Un interesse per allenare la mente tanto quanto il corpo, con l’aspetto mentale generalmente predominante; 2. Una tendenza a sintetizzare varie correnti Taoiste, certe speculazioni Buddhiste, e specifiche linee di pensiero Confuciane; 3. Riferimenti all’ Yijing; 4. Riferimenti a pratiche chimiche.” Ibid., 300. L’uso di trigrammi ed esagrammi del libro dei cambiamenti nell’alchimia interna risale al Zhouyi cantong qi, attribuito a Wei Boyang della dinastia Han. Tuttavia, la versione arrivata fino a noi del Zhouyi cantong qi è datata nella dinastia Tang e segna il cambiamento dall’alchimia esterna (waidan) all’alchimia interna. Fabrizio Pregadio, “The Early History of the Zhouyi cantong qi.” Journal of Chinese Religions 30 (2003).
5Xing e ming sono usati nelle tradizioni Quanzhen e Nanzong, ma non nella tradizione Zhong-Lü, la tradizione più antica di alchimia interna. Robinet, “Original Contributions of Neidan to Taoism and Chinese Thought,” 306.
6la doppia coltivazione di natura interna e vita (xing-ming shuangxiu) era importante sia nel lignaggio del sud di Zhang Boduan sia nella forma dell’alchimia interna della dinastia Yuan di Chen Zhixu. Sulla doppia coltivazione di xing-ming nei lignaggi del sud, vedi Dan K.J. Vercammen, “Bedenkingen bij de xing-ming formule van de Zuidelijke Innerlijke Alchemie (Pensieri sulla Formula xing-ming dell’alchimia interna del Sud),” in Food for Thought: de essentie van de Chinese cul-tuur, ed. Dan K.J. Vercammen (Antwerpen: Belgische Taoïstische Associatie, 2001). La doppia coltivazione di xing-ming, come spiegata da Chen Zhixu, ha anche influenzato gli alchimisti interni della dinastia Ming, come Lu Xixing. Vedi Pierre-Henry de Bruyn, “Daoism in the Ming (1368–1644),” in Kohn, Daoism Handbook, 608.
7Zhang Jiebin, 8. Comparare anche con Ibid., 1141.
8Ibid., 8. Queste frasi possono quasi alla lettera essere trovate nel Jindan dayao, 3:6a, che nuovamente provano la stretta affinità tra le idee di Zhang Jiebin su essenza, Qi e spirito e quelle espresse nel Jindan dayao.
9Citato come in Zhang Jiebin, 8. Comparare con Taishô shinshu daizôkyô 784, 723b:28–29. Su Sishi’er zhang jing, vedere Erik Zürcher, The Buddhist Conquest of China: The Spread and Adaptation of Buddhism in Early Medieval China, 3rd ed. (Leiden: Brill, 2007), 29–30.
10I contenuti del SW 72 e 73 sono attribuiti a Liu Wenshu (11mo Sec.). Despeux, “The Sys-tem of the Five Circulatory Phases and the Six Seasonal Influences,” 133.
11Vedere Catherine Despeux, “Breath Retention,” in Pregadio, Encyclopedia of Taoism, 234– 235. On techniques of breath retention as mentioned in the Baopuzi and Sun Simiao’s Beiji qianjin yaofang, vedi sopra.
14Daoyin può essere tradotto letteralmente come “guidare e tirare” e generalmente si riferisce alle “esercizi ginnici”. Sul daoyin come ginnastiche vedi, Catherine Despeux, “Gymnastics: The Ancient Tradi-tion,” in Kohn, Taoist Meditation and Lon-gevity Techniques. Qui, Zhang Jiebin usa daoyin per denotare tecniche respiratorie.
15questi esercizi sono: “pezzi di regolazione del Qi del signor Jiang” (Jiang-shi Tiaoqi pian), “la formula del signor Su sul nutrimento vitale” (Su-shi Yangsheng jue), e la formula di Li in trentasei caratteri sull’uomo autentico per prolungare la vita (Li Zhenren Changsheng shiliu zi jue). Zhang Jiebin, 1411–1414.
17As in ibid. Comparare con Sun Simiao, Beiji qianjin yaofang, 470, in cui il metodo di Pengzu è anche descritto.
18Inoltre, Zhang si riferisce anche alle pratiche sessuali (Yunü Zhi shu). Su alchimia interiore e pratiche sessuali, vedi Douglas Wile, Art of the Bedchamber: The Chinese Sexual Yoga Classics Including Women’s Solo Meditation Texts (Albany: State University of New York Press,1992).
20Il Baopuzi menziona questo principio in ordine inverso (“ciò che entra è più di ciò che esce” ru duo chu Shao) nel contesto della respirazione embrionale. Il Qi (aria) viene inalato attraverso il naso, e poi chiuso (bi). Dopo aver contato fino a centoventi (a livello principiante), l’aria viene delicatamente respirata attraverso la bocca. Come nella citazione sopra del “Metodo di ritenzione respiratoria di Pengzu”, anche una piuma d’oca è menzionata. Questa piuma d’oca rende “ciò che esce è meno di ciò che entra” visivamente chiaro: “Dovrebbe essere che una piuma d’oca posta sopra la bocca e il naso non si muove mentre espira (tu qi).” Ge Hong, Baopuzi (Master who Embraces Simplicity), Guoxue zhenglishe, Zhuzi jicheng, 8:33.
traduzione da Que faut-il entendre par arts martiaux ? di Gérard Fouquet
Cahiers de l’INSEP Année 1996 12-13 pp. 15-50
Fait partie d’un numéro thématique : Arts martiaux, sports de combat
Pratica Efficace
1
2
3
a) Se Stessi (Accordo a)
TECNICHE Ippon – Unità WAZA
ZEN Ordine personale
b) Altri (accordo a)
FORME Cultura KATA
CONFUCIANESIMO Ordine Sociale SHINTOISMO
c) Ambiente (accordo a)
SITUAZIONI LIBERE Leggi Naturali RANDORI
DAOISMO Ordine Naturale
d) Educazione/Condotta (soggetto)
MARZIALI FISICHE MOTORIE
ARTE (soggetto)
questo è lo schema riassuntivo delle arti marziali dedotto dall’autore
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Per diversi decenni, le arti marziali si sono affermate nel mondo occidentale, soprattutto in Francia. Ora conosciamo gli aspetti principali che i media hanno contribuito a rendere popolari.
Si potrebbe quindi ritenere inutile riconsiderare questo tipo di pratica. Ma non è sicuro. In effetti, cos’è qualcosa marziale? Quali ne sono le basi? Quali definizioni sono state date? Inoltre, cosa stiamo studiando esattamente quando prendiamo le arti marziali come oggetto di ricerca?
Il problema non è semplice. Gli studi attualmente disponibili sulle arti marziali dimostrano che non esiste un unico modo per avvicinarsi e concepirle. Si sarebbe addirittura tentati di suggerire che la pluralità dei punti di vista espressi non funziona a favore dell’esistenza di una vera unità delle arti marziali.
Nell’ambito di questa presentazione, cercheremo di mostrare che le arti marziali sono principalmente, ma non esclusivamente, una questione di teorizzazione dei rapporti che la motricità umana intrattiene con le norme culturali.
A seguito di premesse che consentiranno di individuare alcune delle difficoltà che lo studio delle arti marziali sembra incontrare, ricordiamo quali costituiscono, a nostro avviso, le maggiori ambiguità della questione. In una seconda parte, proporremo una rappresentazione modellata delle arti marziali costruita a partire da tre categorie di dati che si trovano costantemente nella letteratura marziale. Queste sono tecniche di combattimento, forme prestabilite di pratica e confronti liberi. Infine, per concludere, cercheremo di mostrare che le arti marziali si presentano come un vero e proprio sistema la cui estrema complessità non è indipendente da radici culturali a noi lontane dall’essere familiari.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, il numero di pubblicazioni riguardanti le arti marziali è aumentato considerevolmente. Ma tutto sommato, non è immediatamente possibile individuare il filo conduttore di questa massa di informazioni. Prendendo in considerazione insieme tutte le produzioni, la letteratura marziale spiega concezioni che non sono d’accordo tra loro in quanto dipendono da fasci di argomenti che raggruppano insieme, senza alcuna chiara distinzione, conoscenza pratica e conoscenza teorica.
Accettando che “teoria e pratica si sovrappongano, o meglio che una ristretta dialettica di mutuo riferimento e di mutua dipendenza le colleghi tra loro”1, le difficoltà persistono tuttavia quando è necessario limitare ciò che costituisce lo zoccolo duro delle arti marziali. Molti riferimenti di ordine biologico o medico, psicologico, sociologico o antropologico inquadrano le descrizioni tecniche i cui obiettivi mirano, tuttavia, a migliorare l’efficienza nel combattimento strumentato o disarmato. Non è senza dubbio un’esagerazione suggerire che le tecniche di rivitalizzazione, quelle di stimolazione delle energie del corpo o anche le tecniche di massaggio e cura del corpo sono costitutive delle arti marziali allo stesso modo delle tecniche di controllo del respiro, varie forme di rilassamento, tecniche psicosomatiche di autocontrollo o esercizi finalizzati alla meditazione ascetica. Sottolineando che a questi insiemi si aggiungono considerazioni filosofiche o religiose, a seconda del punto di vista degli autori, si è portati alla conclusione che le arti marziali sono prima di tutto un mosaico di dati complessi il cui ordito apparentemente non è assicurato.
Da questo punto di vista, le arti marziali formano un universo multiforme. La questione del loro scopo sembra quindi imporsi. È un problema essenzialmente tecnico, la lotta? Si tratta in particolare di fondazioni culturali in cui sarebbe in gioco una certa visione del mondo? Se le due facce del problema sono collegate, come si passa dall’una all’altra? Che rapporto c’è tra le tecniche di combattimento e le preoccupazioni filosofiche? Se non è opportuno interrogarsi, a priori, sulla gerarchia che subordina pratiche e idee, come riusciamo a chiarire ciò che nel fenomeno marziale è propriamente originale e irriducibile?
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
In assenza di ulteriori informazioni, le arti marziali non sembrano avere un oggetto ben definito. Sarebbe quindi difficile ammettere che formino un gruppo omogeneo. E, vista l’indeterminatezza dei criteri di classificazione in materia di arti marziali, si sarebbe tentati di suggerire che si tratta di un insieme di pratiche eterogenee illuminate da concezioni senza alcun legame evidente tra loro con le altre.
Senza dubbio sarebbe più prudente, di fronte a questa osservazione, abbandonare l’idea di esaminare le arti marziali come se fossero pratiche specifiche, precisamente individuate. La questione sarebbe più semplice se si ammettesse che le arti marziali sono specie suddivise in sottoinsiemi nel genere delle discipline corporee del combattimento comprese nella famiglia delle pratiche fisiche e sportive.
Ma una tale classificazione non impedirebbe a certe specialità di essere ancora considerate arti marziali. Ci rendiamo quindi presto conto che la questione non viene affrontata. Definire le arti marziali è un lavoro necessario che è già stato intrapreso2. È fondamentale in quanto porta ad una possibile determinazione dell’oggetto stesso delle arti marziali al di fuori del quale ogni criterio di classificazione diventa inefficace. Non può quindi essere considerato come una mera preoccupazione formale o una figura retorica. Non sembra utile stilare un elenco delle principali definizioni che sono state proposte delle arti marziali né commentarne alcune. Possiamo limitarci a citare due fatti principali.
Il primo proviene da dizionari ed enciclopedie. Designano con arti marziali le pratiche di combattimento di origine giapponese e talvolta specificano, come nel caso dell’Enciclopedia Britannica, che scomparvero con l’abolizione della casta dei samurai. Inoltre, possiamo menzionare che le parole arti marziali compaiono solo in Le Petit Larousse alla fine, nel 1978.
La seconda è dedotta da una maggioranza di definizioni per le quali l’esistenza di un confine tra sport e arti marziali è dimostrata facendo riferimento implicito o esplicito a norme particolari risultanti dai sistemi di pensiero dell’estremo oriente.
Se vediamo che alcune definizioni chiariscono il dibattito, sono tuttavia lontane dall’esaurirlo. In effetti, cosa sappiamo dell’impatto delle norme culturali dell’Estremo Oriente sull’evoluzione delle pratiche di combattimento nel mondo occidentale, qualunque sia la loro origine?
La domanda va ben oltre lo scopo della nostra discussione. Ci permette tuttavia di cogliere l’interesse che c’è nella ricerca dei fondamenti culturali delle discipline marziali. Perché, privati di tali riferimenti, è difficile ammettere che una netta demarcazione separi le arti marziali dalle altre pratiche di combattimento. Non c’è motivo di parlare di arti marziali piuttosto che di sport da combattimento o di pratiche di opposizione codificata o anche di tecniche corporee di difesa personale. Se applicabile, è solo una preferenza o una scelta il cui unico valore euristico è quello di evidenziare le differenze di percezione o comprensione espresse dai seguaci di una disciplina di combattimento in base al loro ambiente, background culturale e alle indicazioni particolari che danno alla loro pratica.
In altre parole, se l’espressione arti marziali ha un significato e una rilevanza, può designare una sola categoria di pratiche e una sola. Tuttavia, ci sono anche le arti marziali così come gli sport che, a seconda della scala su cui vengono considerati, possono designare un numero limitato di pratiche o un’infinità di pratiche. Usando le parole di Henri Poincaré, è la scala che crea il fenomeno. “Un naturalista,che ha detto, che ha studiato l’elefante solo al microscopio, penserebbe di sapere abbastanza su questo animale?”3.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Possiamo descrivere abbastanza bene ciò che è sotto il microscopio: Judo, Karate, Taichi, Kendo, Vietvodao e, in definitiva, tutte le attività di combattimento che si definiscono marziali. Ma invano si fa un passo indietro, si abbandona il microscopio, si cambia strumento di misura, è difficile cogliere la totalità marziale. Per questo spesso cerchiamo invano una realtà che, per il momento, sfugge ancora alle nostre capacità di osservazione. Le arti marziali sono quindi solo una costruzione della nostra mente? Sono solo un’espressione generica usata per comodità del linguaggio per designare globalmente determinate pratiche di combattimento?
L’espressione arti marziali oggi è sicuramente diventata un’astrazione, parole di cui possiamo diffidare. In effetti, non basta dire che tale attività di combattimento è un’arte marziale per diventarlo? In nome di cosa possiamo vietare a qualsiasi pratica di combattimento di non rivendicare questo titolo? È stato così possibile parlare di “arte marziale in pantofole” in relazione alla boxe francese4 e paragonare “colpi di canna e kendo” come “arte marziale alla francese e alla giapponese”5. Questo è ciò che in parte spiega perché abbiamo assistito, a partire dagli anni ’60 circa, a una vera e propria, apparentemente illimitata espansione delle pratiche marziali. Ne scopriamo di nuovi ogni giorno6. Ed è proprio su questo punto la nota dolente.
La storia delle pratiche di combattimento che oggi in Occidente sono spesso chiamate un po’ frettolosamente arti marziali non permette di caratterizzare chiaramente il fenomeno marziale. Non esiste una cronologia particolare per questo fenomeno, le sue origini sono incerte, incoerenti e talvolta poco plausibili. Inoltre, non è stata stabilita l’autonomia del suo sviluppo. Tra le pratiche belliche in cui si abbandonavano gli uomini in epoca medievale e le tecniche contemporanee di opposizione codificata, le differenze sono tali che sembra improbabile trovare traccia di permanenza. Inoltre, è raro trovare nella nostra letteratura le parole arti marziali per designare i nostri pugilati, la nostra scherma e le nostre lotte. Sembra quindi che ci siano molte imprecisioni e ambiguità quando si qualificano queste pratiche come marziali. Perché il riferimento alla guerra suggerito dalla parola marziale è proprio il fattore essenziale nella trasformazione delle pratiche corporee di combattimento nella civiltà occidentale. È abbandonando i loro modi di combattere violenti e pericolosi che molte forme fisiche di combattimento sono diventate, a determinate condizioni, pratiche sportive socialmente accettabili, come suggerisce Norbert Elias nel contesto del suo lavoro sulla “civiltà dei costumi”7.
La relazione tra parole e cose non è quindi di per sé evidente. Il buon senso si è spesso accontentato del ragionamento analogico. Se è vero che si possono osservare alcune somiglianze a livello di strutture motorie tra i generi di pratica che sono in particolare la lotta occidentale e estremo orientale, la boxe e la scherma, è invece più delicato ammettere che tutta la lotta, tutta la boxe e tutta la scherma rientrano nella stessa concezione ed esercitano, ciascuna per quanto la riguarda, gli stessi effetti sui praticanti. Ovviamente le tecniche di combattimento strumentate o a mani nude non hanno la stessa logica di organizzazione interna e non provengono tutte dalla stessa culla culturale. I modi di procedere che il kendo o il judo impongono ai praticanti non sono quelli della spada o della lotta greco-romana.
La realtà di un modello permanente di organizzazione e funzionamento delle arti marziali non è quindi stata dimostrata e non si può ignorare che le più note di esse, judo, karate o aikido ad esempio, sono il risultato di un processo di costruzione, di una storia in progresso. L’espressione arti marziali si applica quindi, a posteriori, a pratiche di combattimento che non sono mai state storicamente racchiuse nella stessa concezione, secondo principi comuni e con obiettivi identici sia in Estremo Oriente che in Occidente. Inoltre, il fenomeno di generalizzazione che stanno vivendo le arti marziali forse non è indipendente dallo straordinario successo del Giappone nel secondo dopoguerra. Perché, secondo alcune tesi, i successi economici del Giappone non sono indipendenti da un certo stato di spirito marziale8. Quindi, è dai riferimenti economici che sarebbe stata costruita la popolarità delle arti marziali. Più in generale, conosciamo il ruolo svolto dai fenomeni della moda nell’interesse che gli occidentali hanno dimostrato nei confronti dell’Estremo Oriente e del Giappone.
Già nell’Ottocento questo effetto moda veniva denunciato parlando delle “japoniaiseries” a cui tanti europei erano affezionati9. Il Giappone era di moda, anche le arti marziali. I paesi dell’Estremo Oriente hanno quindi compreso il loro interesse a far rivivere pratiche di combattimento ancestrali per commercializzarle sotto un nome promettente e ottenere così l’accesso alla ribalta internazionale in termini di cultura del corpo. Ma il movimento per estendere e diversificare le pratiche marziali ha portato a un malinteso consistente nel confondere varietà e variazioni nelle pratiche di combattimento10. In effetti, è certamente opportuno segnare una differenza tra la varietà data dalla dispersione di tecniche di combattimento più o meno elaborate che si scopre nella maggior parte dei paesi del mondo e la variazione prodotta da una formalizzazione sistematica applicata ad un numero limitato di metodi di combattimento. Questa mancanza di distinzione spiegherebbe in parte l’origine di alcune grandi ambiguità riguardanti le arti marziali.
Il primo, il più noto ma sicuramente il più difficile da risolvere, riguarda i problemi di traduzione del vocabolario che designa le pratiche di combattimento nelle civiltà dell’Estremo Oriente. Perché questo vocabolario è fatto di ideogrammi carichi di sottigliezze semantiche e sfumature storiche.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Inizialmente, l’espressione arti marziali deriverebbe dalla traduzione inglese dei termini giapponesi Bu (guerriero) e Gei (arte), o arti marziali11. Jigoro Kano usa l’espressione “arti marziali” nel 1904 12. Senza dubbio l’aveva già considerata in precedenza in quanto, parlando correntemente l’inglese, era come molti intellettuali del suo tempo ansioso di esporre al mondo occidentale l’originalità della cultura giapponese. Uno dei tratti peculiari di questa cultura riguarda proprio il rapporto tra l’universo delle pratiche belliche e il mondo delle arti. Oggi appartengono ai dati classici, persino banali, della storia giapponese. Significativi a questo riguardo sono gli scritti di Nishiyama Matsunosuke, “Il mondo delle arti”, quelli di Kakuzo Okakura, “Gli ideali dell’Oriente” o anche quelli di Nyozekan Hasegawa13.
Quando J. Kano scrisse di jujutsu o di judo con riferimento a Bugei o Bujutsu, {arte (gei) e tecnica (jutsu), che qui denotano lo stesso oggetto della parola greca tekhne14, si sforzò di sondare le fondamenta di un passato culturale affinché “dal vecchio venga il nuovo”15. Il suo progetto mirava principalmente a educare le nuove generazioni senza che significasse per lui negare o glorificare la casta dei samurai le cui mentalità e pratiche erano cambiate in modo significativo da un’epoca all’altra. Alcuni samurai dovevano allenarsi tanto nella calligrafia, nella poesia, nella composizione dei fiori, nella cerimonia del tè quanto nell’uso della spada, della lancia, dell’arco o delle tecniche di combattimento a mani nude16. E se i guerrieri giapponesi erano esperti nelle arti della guerra e nelle lettere, la loro prima esigenza era “onore e servizio”17 e la loro guida era il sentimento dell’impermanenza di questo mondo18.
Il rapporto tra pratiche belliche e arti non è certo esclusivo della storia del Giappone. Sono iscritti nella storia di altri paesi dell’Estremo Oriente. Ammesso che l’esistenza di un background culturale comune nell’Estremo Oriente sia fondata, è ancora necessario specificarne il contenuto, poiché le singolarità di ciascun paese sono manifestamente molto pronunciate.
Ad esempio, le opere di Catherine Despeux, dedicate allo studio del T’ai ki k’iuan (il Taijiquan), offrono buoni argomenti. Ci mostrano come le tecniche psicosomatiche di lunga vita eseguite a ritmo lento siano allo stesso tempo tecniche di combattimento. Arte o tecnica individuale da un lato, il t’ai ki k’iuan d’altra parte è un affare militare (Wou). C’è quindi solo un passo da compiere affinché le tecniche del t’ai ki k’iuan siano considerate arti marziali mentre i termini t’ai ki k’iuan dovrebbero, secondo l’autore, essere tradotti con grande sommità (T’ai ki) e pugno (K’iuan)19.
L’autore qui sembra ricorrere all’espressione arti marziali più per comodità del linguaggio che per dare consistenza all’espressione. E se nulla nel libro di G. Despeux fa luce su cosa sia un’arte marziale, apprendiamo d’altra parte che le arti da combattimento cinesi si sono sviluppate storicamente in un contesto socio-politico molto diverso da quello che ha permesso la nascita del Budo giapponese.
Accettando, al limite, che le stupefacenti simbiosi di arti e guerra presenti nella storia della Cina e del Giappone possano procedere da approcci vicini tra loro, costituiscono tuttavia un modello universale? Non è sicuro. Si potrebbe quindi ammettere che un problema di traduzione di ideogrammi giapponesi o cinesi nelle lingue occidentali porta le stesse parole a designare realtà diverse.
Resta da chiedersi se l’unico punto di forza delle parole arti marziali non risieda nel fascino esercitato sulle menti dagli eccezionali risultati ottenuti dai guerrieri giapponesi in combattimento. L’efficacia dei loro metodi di addestramento e combattimento essendo altamente dimostrativa, sono diventati una scuola, ma in modo ambiguo. Entrambi sono stati imitati e considerati un mero caso speciale. L’eccezione giapponese conferma quindi una regola generale. Qualsiasi tecnica di combattimento può pretendere di appartenere alla grande famiglia delle arti marziali, ma in varia misura a seconda della sua reale efficacia e del livello di sistematizzazione dei principi di azione a cui è giunta. E come non supporre che a tutte le latitudini e in ogni tempo, alcuni uomini esperti nelle pratiche di combattimento non volessero perfezionarsi corpo e anima per aumentare l’efficacia delle tecniche di combattimento che erano loro. Da questo punto di vista, è vero che qualsiasi forma di combattimento singolo strumentato o a mani nude il cui scopo sia eliminare efficacemente un avversario può ricevere il titolo di arte marziale. Come scrisse Henri Plee, le arti marziali consistono nel “non perdere il controllo” e questi sono, spiega, “gli stessi riferimenti da secoli”20.
Ma confronto non significa avere ragione. L’espressione arti marziali quindi non sembra rilevante. Non ha un significato specifico. E poiché si applica a un gran numero di pratiche di combattimento, il suo significato tende a diventare nullo.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Se i problemi di traduzione giocano un ruolo significativo nell’origine delle ambiguità riguardanti le arti marziali, non sono gli unici. L’instaurazione e poi la diffusione in Occidente delle pratiche di combattimento dell’Estremo Oriente pongono molti problemi per l’interpretazione dei dati storici. La storia del Giappone non è una storia chiusa. Anche quella delle pratiche di combattimento. Filiazioni, prestiti, innovazioni tecniche, ricomposizioni di stili di combattimento da riferimenti comuni sono la regola in questa materia. Numerosissimi sono i litigi per affermare la paternità di un’originale arte del combattimento21. Il Giappone è stato per un certo periodo alla scuola della Cina e poi a quella dell’Occidente. L’Europa è storicamente al crocevia di diverse civiltà.
Quando studiamo le pratiche belliche dei tempi passati, sia in Estremo Oriente che in Occidente, lo sfondo sembra molto diverso nonostante le somiglianze. La storia della nostra lingua, del nostro vocabolario, e qui delle arti marziali, non fa riferimento alle stesse realtà né alle stesse rappresentazioni mentali. L’etimologia incoraggia più a valutare la distinzione che l’identità delle pratiche di combattimento. «Le esercitazioni militari della giovinezza sul Campo di Marte, al galoppo nel sole e nella polvere prima di gettarsi nel Tevere» di cui parla Henri Marrou22 sembrano difficilmente paragonabili alle abitudini dei samurai non più di quanto non assomiglino ai costumi dei «cavalieri erranti riparatori di torti” citato da C. Despeux. Nelle società medievali cinesi e giapponesi c’erano monaci guerrieri che non disdegnavano di brandire il bastone o la sciabola23, mentre questo tipo di devozione sembra essere stata allo stesso tempo ignorata in Europa [a meno che non prendiamo in considerazione ordini cavallereschi come i Templari].
Per quanto ne sappiamo, i guerrieri feudali giapponesi non giocavano nemmeno durante l’allenamento. Le regole che reggevano l’acquisizione della loro eccellenza corporea non erano quelle dei giochi festivi o dei divertimenti rituali. Quando le arti militari del medioevo divennero passatempi, furono viste come segni di decadenza o perversione. Le pratiche di combattimento che furono create e poi sviluppate in Giappone e poi in Occidente dopo il Meiji (1868) non derivavano da attività ludiche come si incontrano nella storia dell’Occidente fin dall’epoca omerica. Se la forza fisica costituisce per l’eroe greco l’unico riferimento delle sue imprese, in guerra come nei combattimenti pacifici24, il più delle volte è considerata un ostacolo al progresso del combattente secondo i sistemi di pensiero che si incontrano nei paesi estremo-orientali25.
Ci sarebbero lunghi sviluppi da considerare su questo soggetto per argomentare l’ipotesi secondo cui le norme e le pratiche dei cavalieri dell’Occidente e dell’Estremo Oriente non sono identiche. Ma possiamo comunque provare ad avvicinare il cavaliere e il samurai e considerare la loro apparente identità. Perché sono, ciascuno per quanto lo riguarda, sempre una cosa e l’altra allo stesso tempo. Sono attivi e meditativi, violenti e calmi, bellicosi e pacifici. Da un lato servono una spiritualità venata di pacifismo, cristiana per il cavaliere, zen per il samurai. D’altronde sono professionisti delle armi, della guerra e dei giochi per il cavaliere, sempre in tragico confronto per i samurai.
L’aforisma “sii pacifico combattendo” che uno storico usa per rappresentare il cavaliere occidentale26 può certamente essere applicato ai samurai. Ma siamo ai limiti del confronto. Perché, uniti sotto la stessa bandiera, il cavaliere e il samurai, e per estensione le arti del combattimento dell’Estremo Oriente e dell’Occidente, non sono, tuttavia, da considerare come semplici equivalenti, quello che consente di interpretare gli altri e viceversa. Le realtà della storia sono soggette a logiche contraddittorie che non si impongono. Nel 1674 un autore olandese, Petter Nicolas, pubblicò ad Amsterdam un “piano didattico per l’eccellente arte del wrestling”27. Con la lotta, ha spiegato che era necessario capire “esattamente l’autodifesa in caso di aggressione”.
Uomo apparentemente famoso e reputato nella pratica del combattimento, l’autore presentava in tredici parti prese e colpi, identiche alle tecniche del jujutsu, con personaggi normalmente vestiti secondo l’usanza del tempo. Era quindi possibile convincersi che quest’arte del wrestling avesse origine nella vecchia Europa e non nell’estremo oriente. Lo stesso fenomeno si ripeté alla fine del 19° secolo quando un giornalista francese scrisse che i giapponesi non avevano davvero inventato nulla di nuovo nell’attuare le tecniche del jujutsu. I lottatori europei, ovviamente, li conoscevano da molto tempo28. Alcuni si sono divertiti ad esaminare le posizioni dei lottatori raffigurate sulle tombe dipinte degli Auguri, intorno al 530 a.C. J.-C, per riconoscere un certo rapporto tra le lotte romane e il jujutsu.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
L’istituzione e la diffusione nel mondo occidentale delle arti del combattimento dell’Estremo Oriente, come l’istituzione e la diffusione dello sport nell’Estremo Oriente, presuppongono scelte e progetti che sono spiegati, tra l’altro, da fattori politici, economici ed economici o ideologie. La complessità di tali fenomeni rende difficile approfondire l’argomento.
Per semplificare, può essere ridotto a due grandi categorie di eventi. La prima riguarda un problema di trasposizione da una cultura all’altra di pratiche sociali tipiche, ma private del loro contesto originario. Ogni cultura tende a trattenere solo ciò che ritiene più redditizio e quindi tende a naturalizzare ciò che prende in prestito. Le arti del combattimento non sono sfuggite a questo fenomeno di acculturazione. La seconda riguarda una questione più generale che si pone in termini di cultura dominante e cultura minoritaria. Fin dai primi contatti, la cultura occidentale ha voluto imporre all’Estremo Oriente le sue opinioni sulla religione e sul progresso umano. L’Occidente si presentava quindi come l’emissario di un movimento di civiltà al di fuori delle cui norme era impensabile fissare le tappe del loro sviluppo sociale e intellettuale per altri paesi. Come scrive Paul Mercier, «nel diciannovesimo secolo l’antropologia affermava ingenuamente che la civiltà occidentale rappresentava l’apice dello sviluppo umano»29.
Questa tendenza ad assimilare l’ignoto a un livello minore di sviluppo culturale e ad interpretarlo nell’ambito di ciò che è noto e gli somiglia sembra manifestarsi pienamente nel fenomeno marziale.
L’etica dei guerrieri feudali giapponesi, Bushido, è stata così presentata all’inizio del XX secolo, da uno studioso giapponese convertito al pensiero occidentale, Nitobe Inazo, come una sorta di equivalente delle regole di comportamento del gentiluomo inglese, la gentilezza del samurai come attributo di una morale capace di fiorire «nella concezione cristiana dell’amore»30. Questo modo di vedere le cose consentiva di porre sullo stesso piano le civiltà dell’Estremo Oriente e dell’Occidente, ma era fortemente contestato non in linea di principio ma per le inesattezze storiche che conteneva31. L’essenza della questione è quindi di diversa portata. Infatti le concezioni dell’estremo oriente sono state molto spesso concepite secondo gli standard del cristianesimo32. Per René Étiemble è sia un errore che una colpa. Questo è almeno quanto suggerisce nella prefazione scritta per presentare i filosofi taoisti. Spiega come la parola Tao sia stata interpretata come un’evoluzione della parola theos e quindi identificata con il Dio cristiano, e quindi come il tao, lo yin e lo yang siano stati descritti come un’espressione della Santissima Trinità del cristianesimo33.
Occorre quindi cautela quando si vogliono interpretare gli usi e i costumi delle arti marziali alla luce della nostra razionalità o dei nostri riferimenti occidentali. Ma la tentazione è tanto forte quanto inconscia. Possiamo attenerci a concezioni marziali, spesso ermetiche per molti aspetti, ai nostri schemi mentali ma non possiamo trascurare i dati dello storico. Perché le arti marziali non sono pratiche di origine greco-latina e giudeo-cristiana. Non erano né modellati secondo i grandi miti fondanti dell’Occidente né coinvolti in un movimento di civiltà che valorizzava la conoscenza teorica a scapito della conoscenza pratica. Inoltre, non sono stati sviluppati nel contesto delle idee politiche occidentali, non sono stati basati sul sistema giuridico-linguistico romano che definisce la persona34 e sono stati introdotti alle regole della democrazia solo molto tardi. Per alcuni autori, riferendosi ancora oggi all’aura venerabile dei Maestri, le arti marziali non hanno ancora raggiunto lo stadio democratico.
Le concezioni dell’Estremo Oriente negli ambiti della conoscenza, della vita sociale, della vita spirituale o religiosa non sembrano quindi assimilarsi meccanicamente alle nostre più di quanto lo siano, del resto, le teorie del corpo o gli atteggiamenti manifestati rispetto alla prassi o al pensiero tecnico35. Riflettono certamente le stesse categorie di interrogativi che gli uomini affrontano senza che la corrispondenza tra le domande e le risposte sia necessariamente nelle stesse relazioni di quelle stabilite e trattenute dal pensiero occidentale.
Secondo studi specialistici, tra cui autorevoli quelli di Maspéro, Granet, Demiéville, Renondeau, Franck, Pinguet, il pensiero dell’Estremo Oriente è fondamentalmente riluttante a classificare gli eventi secondo le categorie abituali della nostra logica36. Non esprimendo necessariamente un’opinione netta su un determinato problema, non elimina le contraddizioni e spesso accetta con tolleranza che una domanda o una situazione abbia molti aspetti contraddittori. Salvo poche eccezioni, riferimenti o atteggiamenti speculativi non sono il suo ambito. Ma d’altra parte, poggia più fondamentalmente su una sorta di regolarità di schemi di pensiero più volutamente orientati verso comportamenti pragmatici e azioni efficaci. Naturalmente sarebbe opportuno apportare molte sfumature alle osservazioni. Ma la tesi è oggi sufficientemente argomentata per essere mantenuta. Qui offre un punto di partenza cruciale. È dalla nozione di pratica effettiva che possiamo costruire un modello (vedi sotto) che ci permetta di cogliere, come accennato in precedenza, i principali fondamenti delle arti marziali.
L’azione o la pratica efficaci è una nozione centrale delle pratiche marziali. Guida costantemente l’apprendimento e lo sviluppo dei combattenti. Definisce un certo potere di agire e dà priorità alla conoscenza. Ciò che conta prima è capire o riflettere meno che fare. Chi si è confrontato direttamente con questo tipo di pratica lo sa bene. Non c’è bisogno di fare troppe domande per imparare una mossa tecnica o essere coinvolti in una situazione di combattimento. Non c’è nemmeno bisogno di dubitare prima di agire. Tema ricorrente delle acquisizioni tecniche e della formazione, la ragione pratica è presente anche nella letteratura specialistica che, peraltro, specifica che è proprio dalle realtà concrete e dalle prove vissute che si costruisce questo particolarissimo stile di vita, di cui tanto si parla nelle arti marziali.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Nel modello proposto, la nozione di pratica efficace comprende il contenuto pratico e teorico delle arti marziali. Il contenuto pratico è presentato nella seconda colonna ed è suddiviso in tre categorie di dati che sono: tecniche di combattimento effettive (2a), forme di pratica codificate (2b) e situazioni di combattimento libero (2c). Queste categorie sono sempre presenti nella pratica marziale, tuttavia possono essere chiamate in ogni particolare arte marziale.
Il contenuto teorico è presentato nella terza colonna e corrisponde ai principali sistemi di idee dell’Estremo Oriente. La prima colonna specifica gli obiettivi che questi sistemi di idee o teorie assegnano alla pratica del combattimento. Si dimostrerà che questi obiettivi possono essere oggetto di una doppia interpretazione, una basata sui dati del pensiero dell’Estremo Oriente, l’altra su quelli del pensiero occidentale.
Questa presentazione non è, secondo le nostre prospettive di analisi, una suddivisione conveniente per esaminare i diversi aspetti delle arti marziali. È il risultato di un’ipotesi secondo la quale ci sarebbe una vera e propria logica di organizzazione nelle arti marziali. Le relazioni tra pratiche, obiettivi e concezioni fanno dell’insieme un vero e proprio sistema in cui ogni elemento non ha ruolo e significato se non nelle relazioni che intrattiene con gli altri, elementi del sistema. È in questa prospettiva che abbiamo accennato sopra alla possibilità di intendere le arti marziali non come associazione di molteplici pratiche di combattimento ma come un sistema originario il cui obiettivo dichiarato è la formazione dell’individuo. Mettendolo in prospettiva con i nostri sistemi educativi, in quanto qui si tratta di pratiche di combattimento, cioè pratiche fisiche, siamo necessariamente portati a incontrare le concezioni occidentali dell’educazione fisica e in particolare quelle vissute dalla Francia nel 20 ° secolo.
Per illustrare le nostre osservazioni, abbiamo scelto l’esempio del judo. Questa scelta è ovviamente arbitraria ma presenta alcuni vantaggi. In primo luogo, il judo ha un vocabolario il cui significato è più stabile di quello di altre specialità rimaste confidenziali. Costituisce quindi una sintesi originale fatta di alcuni fondamenti sino-giapponesi delle arti del combattimento. Sono ancora presenti oggi nella pratica del judo anche se è diventata meno un’arte marziale e maggiormente uno sport internazionale. Infine, presenta una forte coerenza sul piano dell’organizzazione delle relazioni teoria-pratica come le ha presentate J. Kano. Permette quindi più convenientemente rispetto alle altre arti marziali di mettere in luce il progetto educativo di cui abbiamo appena parlato, che è tra l’altro conforme alle opinioni di J. Kano.
Tornando ora all’analisi del modello, è opportuno precisare il contenuto di ciascuna delle nove divisioni, anche se non possiamo qui entrare nei dettagli. In primo luogo, quando esaminiamo le configurazioni motorie delle tecniche di judo associandole alle corrispondenti descrizioni teoriche, vediamo che sono tutte subordinate al raggiungimento dello stesso obiettivo: l’ippon. Puntano al massimo risultato, ovvero al controllo continuo e completo dell’avversario la cui sconfitta è definitiva.
L’ippon è definito da criteri precisi ma si presenta soprattutto come un assoluto. Se sanziona un’azione efficace concepita nel suo insieme completo, essendo l’avversario padroneggiato dall’inizio alla fine dell’esecuzione tecnica, l’ippon tende anche a tenere conto del modo in cui la tecnica è stata eseguita. In un preciso momento, il combattente ha saputo mettere in sinergia le sue capacità fisiche e mentali. L’ippon traduce quindi sia il risultato di un’azione tecnica, sia un certo modo di procedere relativo alla mobilitazione delle risorse dell’esecutore. Possiamo qui fare riferimento all’attuale nozione di rispetto per i fattori dell’esecuzione tecnica, ma l’ippon implica principalmente che gli elementi del comportamento oggettivamente osservabili evochino particolari stati psicologici definiti in base a esperienze vissute in precedenza. In definitiva, ciò che è importante menzionare è che l’ippon non riguarda solo il risultato grezzo dell’azione. Rivela gli stati psicosomatici del combattente concepiti in termini di armonia o unità del soggetto che agisce. Ma il discorso o la parola del praticante non ha una reale influenza sulla costruzione della sua armonia. Dipende dalla propria pratica, dalle situazioni motorie vissute e, senza alcun gioco di parole, l’unità in questione è un’unità motoria.
Dipende dalle trasformazioni ottenute dal praticante che ha eseguito centinaia di volte le stesse sequenze tecniche in base a situazioni di combattimento comunque differenziate. Dipende anche in larga misura dalle rappresentazioni mentali che ha forgiato dal contesto pedagogico in cui si è evoluto. Perché non c’è apprendimento tecnico che sfugga al discorso del maestro. Comunque sia, è dall’ippon e dall’armonia che egli suppone che la gerarchia dei gradi e l’orientamento della progressione in quella che è comunemente chiamata la “via” marziale (do).
Questa subordinazione delle tecniche di combattimento all’ottenimento di un risultato particolare, l’ippon, conferisce alla pratica una vera e propria vocazione. È la ricerca dell’unità nell’azione che può essere considerata come uno sviluppo armonico dell’individuo.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
Se ci riferiamo ai dati classici della nostra cultura e del nostro modo di pensare, l’idea che una tecnica del corpo non sia solo per fini utilitaristici ma sia finalizzata alla realizzazione dell’individuo non è chiaramente né una novità né un enigma. Anche se la realizzazione non si pone in termini di unità o armonia del soggetto agente, si può comprendere che l’apprendistato tecnico ha in primo luogo l’obiettivo di servire l’individuo e solo lui. Se necessario, è lecito ammettere che queste tecniche corporee hanno lo scopo di favorire l’accordo del soggetto con se stesso (colonna 1a, “accordo con se stessi”). Senza negare l’importanza del risultato, le tecniche marziali non lo prendono come obiettivo in quanto tale37. Si tratta di risolvere i problemi incontrati dal praticante le cui rappresentazioni mentali, volontà particolari e poteri d’azione non sono naturalmente orientati verso gli stessi obiettivi.
In secondo luogo, l’esame delle forme codificate della pratica o Kata (colonna 2b) pone un problema. Sequenze di combattimento prestabilite, i kata sono a priori piuttosto ermetici. A cosa corrispondono esattamente? Sono presentati come rituali gestuali che i praticanti ripetono sempre allo stesso modo. Salvo poche eccezioni, la stabilità dei protocolli e la routine delle procedure li rendono modelli di pratica, riferimenti formali come la traduzione letterale ci invitano a comprendere. È quindi possibile considerare il kata come l’espressione di una particolarità culturale. Sono in un certo senso le carte d’identità delle possibili modalità di lotta e la testimonianza di una vera e propria opera di formalizzazione.
Sono l’espressione di una cultura semplificata ma trasmissibile di fronte a una moltitudine di innumerevoli tecniche di combattimento. I kata si presentano quindi come una memoria collettiva mediante la quale si perpetuano i principi di azione illustrati da scelte arbitrarie. Esse derivano quindi molto più da una particolare preoccupazione per la codificazione che da una razionalità che tende a individuare principi generali di azione. Questo non vuol dire che i kata siano privi di regole di organizzazione motoria ma si presentano anzitutto come un originale risultato sintetico, una singolare modellatura, così come lo sono i rituali del dojo, la gerarchia dei gradi o la rapporto tra maestro e discepolo.
Evocano quindi una sorta di permanenza culturale al di là del rinnovamento dei combattenti e, più in generale, delle generazioni successive. Questi modelli di modo di procedere appaiono come legami culturali che uniscono nello spazio e nel tempo i membri appartenenti a una scuola, a un clan o anche a un paese. E nella misura in cui non esiste scuola o clan che non sia diretto da un patriarca o da un maestro, è chiaro che i kata non sono indipendenti da osservazioni morali e considerazioni etiche.
Per Jigoro Kano nessuno potrebbe cimentarsi nella “via” del judo senza prestare giuramento di farlo a vita nel rispetto delle regole stabilite. Nessuno poteva sottrarsi all’idea che fosse una scuola di mutuo soccorso e di prosperità reciproca. Attraverso il kata il judoka acquisiva l’accesso all’identità di un gruppo che doveva servire, traendo ispirazione dal percorso percorso dal fondatore della scuola o dagli antichi maestri. Più in generale, designando particolari forme tecniche, i kata evocano un tipo specifico di socialità che riguarda la maggior parte degli ambiti della vita sociale giapponese. Appartiene alla storia di una società basata su un sistema piramidale di organizzazione sociale chiamato Iémoto, cioè la casa padronale38. È un gruppo sociale gerarchico che forma un clan, una scuola, una setta, un’associazione, una linea ereditaria a capo della quale è un capofamiglia o un maestro carismatico. Qualunque sia la sua specialità, il gruppo si pone l’obiettivo di trasmettere il proprio sapere o il proprio saper fare ricorrendo solo all’insegnamento orale diretto da maestro a discepolo, il più delle volte segreto. Questo sistema di educazione e formazione degli individui è uno dei fondamenti della vita sociale dove ognuno appartiene ad un gruppo che lo protegge subordinandolo secondo il suo talento, certo, ma soprattutto secondo il suo sesso, la sua età, il suo rango e titolo.
Le arti marziali non mancano di apparire come vestigia di questa organizzazione e di questa gerarchia. Tutti conoscono i titoli dei maestri di arti marziali, Hanshi, Kyoshi, Renshi da un certo grado nella scala dei ranghi (dan).
Questa particolare socialità si esprime anche nel codice d’onore dei guerrieri feudali giapponesi, la cui condotta era regolata nei minimi dettagli da un sistema non scritto di regole estremamente severe e vincolanti. Ai guerrieri non era permesso infrangere la parola data e la morte era più accettabile della vergogna e del disonore. Anche qui il modo di fare, la forma, cioè il kata è più importante del contenuto39.
Misuriamo l’importanza dei problemi sollevati per gli occidentali da tutte queste convenzioni sociali, ma questo è il nocciolo della questione delle forme prestabilite di pratica marziale. Sono, come gli altri rituali delle pratiche marziali, intesi a produrre socialità, cioè a stabilire le regole del gioco sociale (accordo con gli altri, colonna lb).
Infine, la terza dimensione del nostro modello corrisponde a situazioni prive di combattimento o Randori (colonna 2c). Ogni combattente sceglie qui, contrariamente alla pratica del kata, le forme di attacco e di difesa che gli sembrano più adatte alle sue risorse e al contesto dell’opposizione regolamentata. Nonostante l’apparente paradosso, ciò che governa una situazione di combattimento libero è in definitiva un insieme di regole vincolanti. Da un lato, infatti, i combattenti si confrontano con un insieme di regole convenzionali provenienti congiuntamente dalla società civile e sportiva. D’altra parte, sono alle prese con le regole che più facilmente vengono chiamate leggi e che regolano e strutturano la loro percezione, il loro equilibrio, il loro dispendio di energie, la loro forza. In breve, i combattenti non possono ignorare le leggi della meccanica e della fisica e, quindi, le leggi della natura. Combattere è dover sottoporsi alla prova delle leggi naturali. È necessario individuarli, impararli e poi metterli in pratica. Non si tratta, tuttavia, di conoscenze libresche ma di capacità di utilizzarle nell’azione. Più questa capacità orienta il comportamento del combattente, più aumenta le sue prestazioni ed efficienza. La famosa formula di Kano, “uso ottimale dell’energia”, è significativa in questo senso. Secondo il suo fondatore, il judo non doveva essere separato dai dati scientifici che, ai suoi tempi, potevano farne comprendere i principi. Ma era anche inseparabile dai lontani insegnamenti relativi all’arte ancestrale della flessibilità, il Ju.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
È in questa prospettiva che Kano ha concepito, a quanto pare, il randori. Per lui mirava a promuovere nei due combattenti una migliore conoscenza del principio di azione della flessibilità che cede alla forza. Il risultato contava meno del processo. Forza e flessibilità erano indissolubilmente legate, così come lo erano anche i combattenti che, secondo Kano, erano sia partner che avversari40. Questa idea è spesso contestata ed è vero che non è razionalmente accettabile nell’ambito di un duello logico. Tuttavia, per Kano, la logica del combattimento era basata su quella dell’ordine naturale delle cose in cui gli opposti sono solo aspetti transitori, traducendo in questo più una complementarietà di ruoli che un’opposizione assoluta. E nella misura in cui sappiamo che l’arte della flessibilità, il ju, non è indipendente da certi insegnamenti taoisti per i quali i fenomeni naturali obbediscono a un principio di alternanza, capiamo meglio perché il randori viene presentato come una situazione di combattimento il cui obiettivo primario è incoraggiare i praticanti per adattarsi al loro ambiente naturale.
In sintesi, dall’esame dei principali orientamenti della pratica marziale emerge un progetto globale di addestramento del combattente consistente nel favorire in lui un triplice adattamento o armonia, a se stesso, agli altri e all’ambiente. Se questo progetto non è di lettura immediata, si può supporre che sia insolito dedurre dalle sole pratiche di combattimento un progetto del genere. Infatti, non viene dal nulla. Presuppone concezioni, teorie, sistemi di idee. Ma, in accordo con quanto visto sopra, le idee non contano più dei gesti nelle pratiche di combattimento dell’Estremo Oriente. Non vi è quindi alcuna particolare ambizione, per queste discipline, di esporre preventivamente un certo numero di fondamenti teorici che giustifichino l’orientamento della pratica. Tuttavia, come abbiamo appena visto in parte, il peso delle idee è reale nelle pratiche marziali. Non possono essere ignorati o trascurati. Prima di precisare alcuni aspetti essenziali (colonna 3), è d’obbligo una precisazione.
Abbiamo già accennato che gli obiettivi assegnati alle pratiche marziali sono insegnamenti classici delle pedagogie corporee occidentali. Ora, questi obiettivi sono il più delle volte integrati nelle preoccupazioni generali che costituiscono il pensiero educativo moderno, in particolare dopo Rousseau. Molte domande, infatti, incombono sulla legittimità dei grandi orientamenti dell’azione educativa. Per Rousseau, l’educazione non può prescindere da tre progetti fondamentali che offrono all’uomo la possibilità di mettersi d’accordo con se stesso, con gli altri e con la natura. Negli anni ’60, Jacques Ulmann adottò questa prospettiva e analizzò le principali tendenze dell’educazione fisica francese nel XX secolo41. Osserva che l’educazione fisica ha conosciuto, talvolta simultaneamente, tre diverse concezioni oggi sufficientemente conosciute da non essere utile approfondirle. La ginnastica costruita, fatta di movimenti localizzati, di posizioni segmentali precise, di rettilineità, determina una buona conoscenza del corpo e di conseguenza favorisce l’autocontrollo.
Lo sport, fatto di civiltà, è incontri, gare, scambi tra individui. È essenzialmente una situazione di relazione con gli altri, di comunicazione con gli altri, di adattamento al gruppo, alla squadra, ai partner e agli avversari.
Con l’ Hébertismo [Metodo di educazione fisica che consiste in esercizi (camminare, saltare, nuoto, ecc.) eseguiti all’aperto.] e i suoi corsi in un ambiente naturale, le sue attività all’aperto e nella natura selvaggia, i rapporti con l’ambiente sono evidenti, così come l’idea che per l’educazione Hébert l’educazione fisica abbia come guida le leggi della natura. L’ebertismo si sforza quindi di sintonizzare l’individuo con il suo ambiente.
Questi fondamenti dell’educazione fisica, o come si dovrebbe scrivere, educazioni fisiche, obbediscono certamente a logiche diverse ma sono proprio l’espressione di problemi più generali posti dalle pratiche fisiche quando si pongono obiettivi educativi. Perseguendo uno solo dei tre obiettivi principali su cui si basa il pensiero educativo, la ginnastica costruita, lo sport e l’ Hébertismo si sono esposti alla critica rivelando l’incompletezza della loro dottrina. Nessuna di queste concezioni riuscì a realizzare l’unità dell’educazione fisica.
Accettando l’idea che una concezione unitaria dell’educazione fisica non può essere dissociata dai tre obiettivi principali sopra menzionati, le arti marziali vanno quindi considerate come una concezione particolare dell’educazione fisica. L’interrogativo che è loro, quindi, non sarebbe senza dubbio situato al livello dei problemi posti specificamente dalle pratiche di combattimento, ma a quello in cui si dibattono i fondamenti dell’educazione fisica.
Tuttavia, non esiste educazione fisica che non presuppone standard. Si tratta quindi di una questione quando si parla di arti marziali di chiarire l’origine delle determinanti culturali pratiche e teoriche da cui sono costruite la pedagogia e la didattica di queste pratiche di combattimento. La storia del judo ci insegna che si è globalizzato principalmente sulla base delle norme e del discorso sportivo e non sul silenzio dello Zen, delle regole del confucianesimo e della metafisica del Tao. Quindi si può ancora parlare di arti marziali quando gli elementi che le fondano e le costituiscono non vengono intesi secondo la coerenza del progetto che è loro? Non dovremmo interrogarci sul significato che assumono oggi pratiche le cui fondamenta sono diventate elementi decorativi che possono essere reinterpretati secondo speculazioni spesso fantasiose?
Ma quale sguardo accettabile è possibile dare di queste radici culturali che sono il Buddismo, il pensiero confuciano o il Tao? Perché sono ovviamente problematici. In primo luogo, dalle interpretazioni che ne vengono date e che non sono sempre concordanti tra loro. Poi, dal linguaggio letterario e metaforico che usano e che non corrisponde al contesto culturale dell’Occidente. Infine, dalle difficoltà poste dalla verifica dell’autenticità dei loro complessi rapporti con le pratiche di lotta.
Molto schematicamente, il Buddismo Zen (col. 3a) è un sistema di idee che si rivolge all’individuo preso nella sua singolarità. Gli insegna a trovare, con i propri mezzi, la via della sua salvezza che lo porta finalmente a concordare con se stesso vedendo le cose come stanno. Perché, secondo il buddismo, le realtà che percepisce sono coperte da un velo di illusione. Ed è da questa falsa conoscenza che viene la sofferenza degli uomini. Da qui un atteggiamento di benevolenza ma anche di pessimismo perché gli uomini si aggrappano disperatamente all’idea di possedere la propria realtà quando non è così. Il mondo è impermanente e tutto è privo di sostanza42. Ci sono quindi poche possibilità di cogliere questa realtà che in Occidente si chiama se o ego.
Per il buddismo Zen, l’accordo o l’armonia individuale sorge in termini di ritiro, rinuncia o abbandono. È il non-me, o il non-ego. Espressa in forme diverse, l’idea compare nella pratica marziale quando si tratta di spiegare che l’efficacia del combattente è, a lungo termine, direttamente proporzionale alla sua capacità di abbandonare il potere del suo desiderio di vincere, l’autocompiacimento delle sue imprese o anche della volontà di essere il migliore in assoluto. Inoltre, da una prospettiva zen, l’armonia promessa non è una questione di ragionamento o di conoscenza verbale. Lo Zen rimuove il potere della parola e arriva a negare l’esistenza di forme e colori43. Nell’ordine del suo progresso, il combattente può sperare solo in una cosa: avere l’intuizione improvvisa o a livelli successivi che la realtà ultima è qui e ora. Ciò costituisce un problema del tempo molto delicato in quanto né il passato né il futuro posseggono una reale esistenza. Ma comprendiamo meglio il motivo per cui la pratica delle arti marziali si basa sul principio dell’ippon, che permette di tradurre questa particolare concezione del tempo. L’ippon esprime quindi l’istantaneità che governa l’ordine dei fenomeni naturali. Il combattente che riesce a creare uno squilibrio nel suo avversario, quindi a costruire una forma tecnica per riuscire finalmente a lanciarlo, ricrea la temporalità degli eventi che nascono, esistono e scompaiono in un istante. È sulla base di questa particolare concezione del tempo che le arti marziali, così come tutte le pratiche ad esse ispirate, trasformano il modo di agire stesso in un’opera d’arte44. Come scrive Hasegawa Nyozekan, il pensiero giapponese è stato in grado di «creare arte dagli aspetti banali della vita»45.
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
L’esecuzione di una tecnica di combattimento è quindi solo una particolare modalità espressiva alla stregua, ad esempio, della calligrafia in cui l’opera d’arte è interamente raccontata – nuda nell’atto di tracciare una forma con una sola pennellata, senza esitazione, senza ritorno, senza rimpianti.
In una situazione di combattimento, vittoria e sconfitta assumono quindi una dimensione simbolica che funziona nel registro della temporalità e della condizione umana. E sappiamo che il riferimento alla coppia dei rapporti vita-morte è frequente nelle arti marziali. Al riguardo, possiamo sottolineare che tale riferimento sembra presentarsi meno come una banale questione di trattazione analogica del combattimento che come un vero problema filosofico in quanto suppone l’adozione, da parte del combattente, di un punto di vista che sarebbe razionalmente possibile sostenere l’assimilazione del tempo all’esistenza.
È in questa prospettiva che la letteratura specializzata evoca il problema. Fa quindi appello a particolari disposizioni psichiche che i combattenti dovrebbero acquisire prendendo la via marziale. Ma soprattutto descrive, nei termini che gli sono propri, la “coscienza senza coscienza”, la “coscienza immobile”, il “vuoto della mente” o anche la “spontaneità dell’azione”, fondamentale che altri sistemi di idee formulano mettendo in discussione le relazioni da stabilire tra temporalità vissuta e tempo oggettivo.
Il pensiero zen non fornisce una risposta definitiva a questa domanda. Invita il praticante a risolvere il problema da solo e gli lascia capire per intuizione che la realtà della sua psiche è identica a qualsiasi altra realtà temporale coinvolta nel divenire, che è il vuoto originario dei fenomeni. Il combattente alla fine riesce, lungo la strada, a costo di un incessante lavoro fisico e mentale che abbatte ogni sua resistenza. Libero da vincoli fisici, tecnici e mentali, il combattente è quindi in grado di agire con grande fluidità di movimento, al momento giusto e senza fretta, rendendo così la sua pratica estremamente efficace. È dal raggiungimento di tale naturale efficienza che comincia a cogliere un’identità relativa di pensiero e azione da cui si manifesta una supposta identità di tempo e di esistenza.
Il rapporto tra Buddismo Zen e pratiche di combattimento non è nuovo. Fu penetrando in Giappone intorno al 1180 che lo Zen iniziò ad esercitare la sua influenza sulla mentalità dei guerrieri, proprio nel momento in cui presero il potere46. Agli occhi di Paul Demiéville, questa sarebbe solo una semplice coincidenza della storia47.
Comunque sia, lo Zen, che nega l’esistenza delle categorie abituali della nostra sensibilità, ha influenzato la cultura giapponese e l’ha destinata in modo profondo ad esprimere solo il vuoto. Il giardino giapponese ne è un esempio. Dati i criteri che l’Occidente conserva in termini di estetica, sembrerebbe che si sia fuorviati nel parlare di arti marziali in connessione con le pratiche di combattimento occidentali che nulla ci permette di affermare che cerchino proprio di esprimere un’estetica del vuoto o l’immaterialità della cultura.
Confucianesimo e Shintoismo (col. 3b) sono entrambi, nonostante l’estremo divario che li separa, sistemi di regole che definiscono i contorni della vita sociale. In entrambi i casi, l’individuo ha un ruolo solo in relazione ai principi su cui si basano l’organizzazione e il funzionamento del gruppo o della società.
Il confucianesimo si presenta come un insieme di obblighi e convenzioni tendenti a stabilire un certo ordine sociale, a raggiungere un accordo tra gli individui. Fin dalle sue origini remote, il confucianesimo è stato associato a un pensiero razionale che si applica alla costruzione di un sistema politico e sociale di governo del popolo. Il luogo e il ruolo di ciascuno sono nominati e definiti con precisione. Non c’è confusione possibile quando l’ordine sociale poggia sull’ordine naturale delle cose. Il confucianesimo si applica quindi a instillare negli uomini il sapere e la tecnica. Lo studioso o anche il saggio confuciano applica abilmente la conoscenza che gli assicura l’efficacia delle sue imprese. Conosce il suo lavoro. Consiglia quindi agli imperatori di agire secondo le regole del governo. E ogni individuo è invitato a comportarsi secondo le regole che sono quelle della sua professione. Quando si parla di mestieri manuali, quello delle armi ad esempio, il pensiero confuciano insiste sulla necessità di acquisire il massimo grado nel campo delle capacità motorie. Il guerriero che conosce bene i suoi affari non può essere goffo. Impara a combattere come il macellaio impara a disossare un animale facendolo velocemente, senza tagliarsi e senza sprechi perché conosce bene l’anatomia dell’animale48.
Il confucianesimo definisce così procedure, segna tappe, ordina razionalmente gli spazi d’azione degli individui e li invita fortemente a rispettare le regole del gioco affinché ottengano i benefici attesi. Queste meticolose descrizioni costituiscono le basi della conoscenza specifica di ogni dominio dell’attività umana. Sono riferimenti obbligatori, le regole da cui è organizzata la sintassi delle pratiche sociali. E queste forme altamente organizzate procedono da un approccio identico a quello incontrato nei kata sopra menzionati. Questo è molto probabilmente il motivo per cui i kata sono stati spesso presentati come una sorta di “grammatica” delle pratiche di combattimento.
Questi aspetti del confucianesimo ne fanno un pensiero tecnico che lavora per l’istruzione dell’individuo al fine di facilitarne l’integrazione nel mondo. Ma il rigore del metodo ha finito per trasformare la conoscenza confuciana in un vero e proprio sistema di inquadramento dei comportamenti sociali, una sorta di rigorosa tassonomia delle azioni sociali, che a volte non è priva dell’impedire ogni idea di libertà individuale.
Per quanto riguarda lo shintoismo, è l’espressione di una particolare cosmogonia in cui uomini e dèi (Kami) sono coinvolti nello stesso movimento in divenire. Non evoca una trascendenza precisa, ma ammette l’esistenza di una continuità nell’ordine dei fenomeni naturali e umani. Religione animista per alcuni, sistema di pensiero per altri, lo Shintô è definito da Bernard Frank come “un insieme di credenze e di riti ancestrali del paese, che mirano a far vivere l’uomo nella massima armonia possibile con il suo ambiente naturale e a rendergli favorevoli i poteri diffusi che lo circondano”49. Si potrebbe quindi supporre che sarebbe stato più saggio metterlo in prospettiva con un progetto di armonia tra l’uomo e il suo ambiente. Ma Shintô lega anche gli individui tra loro nella stessa comunità al vertice della quale si trova l’imperatore. Stabilisce quindi la coerenza del gruppo, la sua specificità, assicura la non discontinuità temporale tra le generazioni e il mondo naturale. È una sorta di eternità, o, più esattamente, di eterno rinnovamento che si manifesta in particolare nei rituali di infinita ricostruzione del tempio di Isê50. Associato all’idea che la cultura sia un’opera del tempo, il rituale shintoista si ritrova nelle lunghe preparazioni dei lottatori di sumo il cui combattimento è però solo questione di momento51.
Infine, parlando del pensiero taoista, si tratta tanto di pratiche religiose quanto di insegnamenti filosofici. A causa in particolare di alcune visioni del mondo che evoca, il taoismo non è privo dei tratti di una metafisica complessa che molto spesso si avvicina a una scuola di misteri. Interrogandosi sull’ordine cosmico delle cose, ammette l’esistenza di un’energia primordiale (Ki), alla quale le arti marziali si riferiscono quasi permanentemente. Perché alla presunta circolazione di un’energia universale situata sulla scala del macrocosmo corrisponde una circolazione di energia corporea che non è indipendente da essa. Il seguace di un’arte marziale non smette mai di legarli, di unirli, seguendo l’esempio di ciò che la parola cerca di esprimere. aikido, la via (do) dell’unione (ai) con l’energia universale (ki). È attraverso un lavoro speciale e il controllo della respirazione, incluso il grido, il kiaï, che i combattenti imparano a esprimere e incanalare la propria energia in modo che siano gradualmente in grado di consentire a un’energia di un’altra dimensione di agire dentro di loro.
Queste relazioni tra un’energia situata nella sfera del macrocosmo e un’energia corporea situata nella sfera del microcosmo sono all’origine di molti dibattiti e molte speculazioni che interessano tanto il campo della parapsicologia quanto quello della fisica delle particelle52.
Questa ricerca di dati originali conferisce, senza dubbio, alla prospettiva taoista gli aspetti di un approccio ontologico. Ma, che si tratti di respiri o di energia, l’ipotesi dell’esistenza di una realtà permanente e stabile è esclusa. L’universo è solo trasformazioni e mutazioni osservabili nell’interazione di fenomeni di crescita e declino.
Secondo questi insegnamenti, non c’è inizio o fine nell’ordine naturale delle cose e solo il Tao è eterno in quanto insondabile, impenetrabile e inconoscibile. E poiché non può essere nominato, fu chiamato tao, cioè la via53. È considerato come un unico principio che si manifesta sotto forma di fenomeni relativi, alternanze o variazioni, yin e yang. È quindi accettato che l’ordine naturale delle cose esprima contrasti, sfumature, opposizioni secondo una tendenza spontanea alla regolazione o all’armonizzazione degli opposti, essendo nulla totalmente bianco o totalmente nero.
Non c’è quindi alcuna opposizione fondamentale tra materia e spirito, essendo l’una e l’altra solo manifestazioni transitorie. Non sono sostanze, ma meri fenomeni in relazione tra loro. In questa prospettiva, la conoscenza umana è soggetta al relativismo di una realtà in perenne mutamento. Non coglie quindi mai altro che un insieme di relazioni, che ha portato Paul Demiéville a dire che, per certi versi, il Tao era prescientifico e le sue verità più vicine alle medie statistiche che alle certezze. Il tao non è quindi in questo senso una vera e propria dottrina o una filosofia, ma un atteggiamento consistente nell’ascolto dei fenomeni naturali per comprenderne le regole e per seguirle. Schematicamente, sono tali insegnamenti che costituiscono l’arte o le arti della non azione taoista che si incontra nel judo dove la flessibilità è un’azione senza azione che cede all’azione della forza.
Questa presentazione del Tao è molto parziale e quindi non permette di rendere conto dei grandi aspetti di un pensiero complesso che, peraltro, ha subito molte trasformazioni dottrinali nel diffondersi. Queste carenze si trovano anche nei commenti fatti sul buddismo zen, il confucianesimo e lo shintoismo. Il che non è affatto soddisfacente, tanto più che nessuno di questi sistemi di idee costituisce un fenomeno puro. Tutti si sono combattuti e si sono influenzati a vicenda quando sono entrati in contatto tra loro in momenti diversi della storia.
Se è vero che un tale approccio lascia indubbiamente più zone d’ombra di quante non porti veri e propri chiarimenti, è comunque il passaggio obbligato senza il quale le arti marziali perderebbero l’intelligibilità della loro cultura d’origine.
Ma essa non ci è familiare. È il vero ostacolo contro il quale si scontrano gli adepti occidentali delle arti marziali quando si tratta di interpretarle. Alcuni hanno talvolta paragonato questa cultura d’origine a una metafisica nebulosa, molto ingombrante per pratiche la cui logica è di per sé sufficiente. Molti judoka, karateka o kendoka praticano la loro arte in completa indipendenza mentale dai riferimenti precedenti. Praticano prima gli sport da combattimento che li soddisfano per ciò che sono intrinsecamente e non per ciò che dovrebbe fondarli. Il loro protocollo esotico alla fine non presenta alcun vero disagio. Altri hanno visto nella cultura marziale i tratti di una vera religione che trasforma le arti marziali in pratiche ascetiche o meditative. L’arte tradizionale del combattimento viene quindi percepita come una metamorfosi che porta a pratiche mistiche paragonate da alcuni autori a fenomeni di regressione legati alla paura del domani e ai pericoli del progresso.
Questo è il destino delle arti marziali che l’Occidente ha naturalizzato [cioè rese autoctone, adottate]. Ma questo non è un inconveniente perché nella loro terra d’origine le arti marziali hanno vissuto la stessa sorte.
In definitiva, cosa dobbiamo conservare di questo patrimonio culturale?
un illustrazione giapponese dello Shuihuzhuan (il romanzo sul bordo dell’acqua)
È innanzitutto il riflesso del particolare progresso di una civiltà la cui storia di idee, mentalità e usi sociali riflette invenzioni e scelte che non sono le nostre. Ma questo background culturale tende ad aggregare la varietà delle creazioni umane allo stesso principio espresso dalla parola do, la via.
Così, per Heinemann, ciò che agli occhi degli occidentali sembra incompatibile confluisce in Giappone nella stessa concezione: “La grande caratteristica della cultura giapponese è che lega indissolubilmente filosofia, religione e arte, tutte basate sul concetto di via”54.
A questa concezione, che accetta una forte pluralità di interpretazioni dei fenomeni osservati, corrisponde un relativo fatalismo consistente nel lasciare che le cose si sviluppino da sole. La via marziale può diventare tanto il paradiso all’ombra delle spade di cui parlava R. Grousset55 quanto un metodo volto alla cessazione dei conflitti. Così, l’ideale di padronanza di sé che deriva dagli insegnamenti zen può condurre le pratiche marziali verso gli atti positivi più eccessivi, qui e ora, così come può condurle verso forme contemplative passive o mistiche del distacco dal mondo.
Prima di concludere, è opportuno tornare in poche parole alla lettura del modello proposto. Se permette di osservare che le arti marziali possono essere oggetto di due interpretazioni principali, una fatta secondo i canoni della cultura occidentale (colonna 1), l’altra secondo quelli dell’estremo oriente Oriente, (colonna 3), mostra anche che la prima specificità delle arti marziali è pratica e tecnica (colonna 2). È un insieme di dati concreti, osservabili, misurabili e riproducibili. Appartengono al dominio della motricità umana. Ci rendiamo allora conto che la marzialità in questione è l’equivalente della motricità. In quanto tali, le arti marziali obbediscono a leggi generali indipendentemente dalla coscienza di chi le pratica, e questo qualunque sia il nome dato all’arte marziale, alle tecniche di combattimento, alle forme codificate della pratica o nei combattimenti liberi.
La marzialità è quindi prima di tutto un’abilità motoria a cui sono assegnati obiettivi educativi identificabili, e le arti che ad essa corrispondono non designano altro che quella che generalmente in Occidente viene chiamata educazione. Il modello ci permette di scriverlo: le arti marziali sono un’educazione motoria. Possiamo quindi stabilire una sorta di uguaglianza tra educazione motoria e arti marziali (colonna d). Se ora ci riferiamo a pedagogie corporee che pongono il soggetto agente al centro delle loro preoccupazioni56, la nozione di comportamento motorio può sostituire quella di educazione motoria poiché offre il vantaggio di indicare sia una rilevanza, la motricità, sia l’oggetto dell’educazione azione, lo sviluppo della persona che agisce Nella misura in cui la nozione di arte, come abbiamo visto, designa nelle arti marziali il modo di agire di colui che agisce, essa evoca precisamente la stessa problematica che descrive il concetto di condotta, basato sull’attività del soggetto che agisce. L’originalità unica che le arti marziali possederebbero quindi sarebbe quella di presentarsi, prima della teoria, come una pedagogia dei comportamenti motori incentrata però esclusivamente sulle capacità motorie del combattente.
Ma dimostrare che le arti marziali sono presentate come una versione dell’estremo oriente della pedagogia dei comportamenti motori non mira a nessun altro obiettivo se non quello di rendere conto della logica dell’organizzazione delle pratiche fisiche la cui complessità delle relazioni forma un quadro in cui particolari determinanti culturali e gli invarianti universali specifici della motricità umana si intersecano.
In questa prospettiva, l’ipotesi formulata all’inizio della presentazione non è quindi da respingere. Le arti marziali si presentano come un vero e proprio sistema quando tutte le parti che le costituiscono mantengono i rapporti sopra citati. Tuttavia, gli elementi che fondano le arti marziali sono infatti estremamente “indissociabili” dalla totalità marziale che contribuiscono a formare. L’esistenza di un modello generale e permanente che caratterizzerebbe le arti marziali non è quindi stabilita in quanto dipende da un insieme di condizioni che le scelte culturali non necessariamente impongono. Non è quindi escluso che le arti marziali siano, in definitiva, solo una possibile forma di pratiche di combattimento la cui organizzazione e funzionamento concreti sono molto più probabili nella civiltà che le ha partorite che in quella occidentale. Fino a che punto, infatti, può sottrarsi ai propri determinismi culturali? Il modello proposto non fornisce una risposta precisa a questo tipo di domande. Permette solo di mettere in prospettiva da un raggruppamento di elementi che la letteratura specializzata il più delle volte presenta in modo disperso. Ma promuovendo il confronto di dati provenienti da civiltà e culture diverse, il modello mette in luce quelli che alcuni antropologi hanno chiamato “modelli di cultura”57. Il relativismo delle norme che inquadrano le pratiche corporee e soprattutto le pratiche marziali invita a considerare con attenzione l’incertezza che può accompagnare alcune teorie sulle arti marziali. Perché i sistemi di pensiero dell’Estremo Oriente rimangono in gran parte sotto determinati finora dai nostri soliti parametri di riferimento e dai nostri modi di ragionamento. Contrariamente ai modelli teorici che procedono dall’osservazione dei fatti naturali e portano all’elaborazione di concetti operativi, i modelli esplicativi sono, nell’universo dei fatti culturali, molto meno indipendenti dal punto di vista di chi li elabora. Sono quindi contestabili e ogni attore, di fronte a qualsiasi sistema, conserva il potere di rifiuto che è suo.
Per concludere, è probabilmente utile tornare alla domanda iniziale: “Cosa si intende per arti marziali?” Ora abbiamo alcune risposte, ma il progetto è giunto solo in parte al termine. Molte domande sono rimaste senza risposta a causa della complessità del fenomeno dell’acculturazione con cui emerge l’esame delle arti marziali. Abbiamo potuto renderci conto che si estende a molte questioni riguardanti il contributo dell’Estremo Oriente alla conoscenza antropologica universale. La posta in gioco di tali questioni va oltre i limiti dell’analisi tecnica, ma non la escludono poiché si tratta, in definitiva, di adottare una prospettiva etnomotoria nel tentativo di cogliere il funzionamento e il significato delle arti marziali di questi particolari assiemi biopsicosociologici di di cui ha parlato Marcel Mauss.
Ma alla luce delle attuali conoscenze, sembra prematuro proporre una spiegazione globale di queste funzioni motorie e di queste particolari organizzazioni corporee. E, in linea diretta, una certa cautela richiederebbe di non escludere alcune ipotesi che consentano una migliore comprensione delle arti marziali. Il ruolo svolto dall’immaginazione è senza dubbio da non sottovalutare in un universo in cui le tecniche corporee sono concepite come opere d’arte. Come scrive Leroi-Gourhan, “l’immaginazione è la proprietà fondamentale dell’intelligenza e una società in cui la proprietà di forgiare simboli si indebolirebbe perderebbe congiuntamente la sua proprietà di agire”58.
E secondo la sensibilità di alcuni seguaci, la potenza del simbolismo delle arti marziali non avverrebbe senza rovinare ogni tentativo di modellazione perché, secondo l’aforisma di Paul Éluard, «non esiste modello per chi cerca ciò che non ha mai visto “.
Note e Bibliografia
1ULMANN (J.).-De la gymnastique aux sports modernes. Paris : Vrin, 1977, p. 476.
2DRAGER (D.F.), SMITH (R.W.).-Asian fighting arts. Tokyo, N.Y : Kodansha Interna¬ tional, 1969. RATTI (O.), WESTBROOK (A.).-Guide des arts martiaux. Paris : édit. De la Courtille, 1976. JORESCAM, Marseille, 1992
3Cité par M. ÉLIADE.-Traité d’histoire des religions. Paris : Payot, 1975, p. 11. Cf. POINCARÉ (H.).-La science et l’hypothèse. Paris : Flammarion, 1968.
6FRÉDÉRIC (L.), RANDOM (M.).-Dictionnaire des arts martiaux. Paris : Félin, 1988. GEORGES (C.).-Découvrir les anciennes armes de la Chine, 1994.
7ÉLIAS (N.), DUNNING (E.).-1994. Sport et civilisation, la violence maîtrisée. Paris : Fayard, 1994
8COHEN (G.S.).-Les nouveaux samouraïs. Comment les Japonais appliquent l’art de la guerre à la conquête économique du monde. Paris : R. LafFont, 1982.
9ROSNY (Léon de).-Feuilles de Momidzi, Mémoire de la Société d’ethnologie. Paris : Leroux, 1902, p. 287.
10BACHELARD (G.).-“Il pensiero prescientifico non si concentra sullo studio di un fenomeno ben definito. Non cerca la variazione ma la varietà. E questo è un tratto particolarmente caratteristico: la ricerca della varietà conduce la mente da un oggetto all’altro, senza metodo; la mente mira allora solo all’estensione dei concetti; la ricerca della variazione si attacca a un fenomeno particolare, cerca di oggettivare tutte le variabili, di testare la sensibilità delle variabili.. La formation de l’esprit scientifique. Paris : Vrin, XIVe édition, 1989, p. 31.
11DRAGER (D.F.), SMITH (R.W.).-op. cit, p. 81. TOMIKI (K.).-Bulletin of Association for the Scientific Studies on Judo. Kodokan, report III. Tokyo : Kodokan, 1969.
12ARIMA (S.).-Judo, Japanese physical culture, being a further exposition of jiujitsu and similar arts. Tokyo : Mitsumura and coll., publisher, 1908, pi.
13KAKUSO (O.).-Les idéaux de l’Orient, trad. J Serruys. Paris : Payot, 1917. A propos du vocable “Geijutsu” : “C’était un terme s’appliquant à tous les arts guerriers aussi bien qu’aux beaux-arts”, HASEGAWA (N.).-Les fondements de la culture du peuple japonais, trad, et notes de K. Petit. Tokyo : Kokusai Bunka Shinkokai, 1940, p. 27.
14LALANDE (A.).-Vocabulaire technique et critique de la philosophie. Paris : PUE 1972.
15Kano basa qui il suo pensiero su un noto aforisma confuciano. “Il buon maestro è colui che, pur ripetendo il vecchio, riesce a trovarvi qualcosa di nuovo”. Entretiens de Confucius, traduit du chinois par Anne Cheng. Paris : Seuil, 1981, p. 35.
16Ricordiamo che le antiche arti militari (Bujutsu) erano costituite da diciotto specialità: il tiro con l’arco, l’equitazione, la scherma con la lancia, lunga e corta, la scherma con la sciabola, il nuoto, l’arte di disegnare, l’arte del pugnale, l’arte del jitte, l’arte della pistola, l’arte degli aghi in bocca, la canna corta, l’arte di fare prigionieri, l’arte del combattimento senz’armi, l’arte della falce a catena, l’arte di sciogliere i legami, l’arte di nascondersi e l’arte delle stelle pungenti, TAKIZAWA Kôzô, revue Kendo, n°4, 1984 et TOMIKI (K), op. cit. p. 130.
17PINGUET (M.).-La mort volontaire au Japon. Paris : Gallimard, 1984, p. 145.
18SAIKAKU (I.).-Du devoir des guerriers. Paris : Gallimard, 1992. Cf. également infra note n°42.
19DESPEUX (C.).-T’ai ki k’iuan, techniques de longue vie, techniques de combat. Paris : Institut des Hautes Études chinoises, vol. II, 1976, p. 4.
20PLEE (H.).-Revue Karaté, n° 197, p. 30. Cf. également : DRAGER et SMITH op. cit., “The fighting arts are as old as man himself1.
21RATTI (O.), WESTBROOK (A.).-op. cit., pp. 146-153.
22MARROU (H. I.).-Histoire de l’éducation dans l’antiquité, T2, Paris : Seuil, 1948, p. 28
23RENONDEAU (G.).-Moines guerriers et soldats des temples, Histoire des religions. Till, Paris : Gallimard, 1976, pp. 506-507. Les querelles des monastères et les moines guer¬ riers, id. T I, 1970, p. 1333.
24WAHL (J.).-Le monde d’Homère, c’est le monde de la force, préface, in BESPALOFF, De l’Iliade, New-York, 1943.
25Sul rapporto forza-flessibilità, cf. entre autres, LAO TZEU, La voie et sa vertu, Taotêking, textes chinois présentés et traduits par François Houang et Pierre Leyris, Paris : Seuil, 1979, pp. 63, 171, 175.
26CONTAMINE (P.).-Du cavalier au chevalier : “Sois pacifique en combattant !”, L’His¬ toire, n° 41, janv. 1982, p. 78.
27PETER (N.).-Klare onderrichtinge der Voorteffelijcke Worstelkonst, Verhandelende oemen in aile voorvallen va Twift in handtgemeenfchap, fich kan hoeden : en aile Aengrepen, Bortslooten, Vuystslagen & coll. Verfleten, Amsterdam : J.J. Van Waesberge, 1674.
28CHARLEMONT (J.).-“La Vie au Grand Air”, n° 373, 1905, p. 918.
29MERCIER (P.).-Histoire de l’anthropologie. Paris : PUF, 1966, pp. 18-20.
30DUBOSCQ (A.).-Les Japonais. Paris : Société d’Éditions Françaises et Internationales, 1947, p. 91.
31FLACH (J.).-L’âme japonaise d’après un Japonais. Annales des Sciences politiques. Paris : F. Alcan, 1904.
32SABINE (Chanoine de).-Les nouveaux voyageurs en Chine et au Japon, ouvrage revu, corrigé et augmenté par V. Doublet, moraliste approuvé et encouragé par le souverain Pontife. Paris, Dijon : V. Doublet éditeur, 1847.
33ÉTIEMBLE (R.).-Les philosophes taoïstes, préface. Paris : Gallimard, 1980.
34MAUSS (M.).-Sociologie et anthropologie. Paris : PUF, 1968.
35YUASA (Y.).-The Body : Toward an Eastern Mindbody Theory. Translated by T.P. Kasulis, Nagamoto Shigemori, Tokyo : édited by T.P. Kasulis, s.d.
36GRANET (M.).-La pensée chinoise. Paris : Albin Michel, 1968.
37HERRIGEL (E.).-Le zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc. Paris : Dervy Livres, 1970, p. 15. SHIBATA (M.).-Les maîtres du zen au Japon. Paris : Maisonneuve et Larose, 1976, p. 89.
38HSU (F. L.K.).-Iemoto, the heart of Japan, New-York, John Wiley sons, inc, 1975. Encyclopédie Universelle, Tokyo : HeibonSha, 1972, T2, p. 25.
42“Le dit des Heiké”, “Dal monastero di Gion il suono della campana, dall’impermanenza di tutte le cose è la risonanza. Dagli alberi di Shara il colore dei fiori dimostra che tutto ciò che prospera necessariamente fallisce. L’orgoglio non dura certo, proprio come il sogno di una notte di primavera. Anche l’uomo valoroso finisce per sgretolarsi né più né meno che polvere al vento”. Traduction de R. Sieffert, Paris : POF, 1978, p. 31.
43SIEFFERT (R.).-Les religions du Japon. Paris : PUF, 1968, pp. 53-57.
44MISHIMA (Y.).-Défense de la culture, (extraits), Revue Esprit, n° 2, 1973, p. 345.
46SANSON (G.B.).-Le Japon. Paris : Payot, 1938, p. 342.
47DEMIEVILLE (P.).-Le Bouddhisme et la guerre. Cité par SIEFFERT (R), op.cit., p. 58.
48ÉTIEMBLE (R.).-Philosophes taoïstes. Préface, op.cit., p. XXXVIII.
49FRANK (B.).-Leçon inaugurale, vendredi 29 février 1980, Collège de France, p. 18.
50MISHIMA (Y.).-Défense de la culture. Revue Esprit, n° 2, fév. 73.
51BARTHE (R.).-L’empire des signes. Paris : Flammarion, 1970, p. 54.
52CAPRA (F.).-Le tao de la physique. Paris : Tchou, 1979.
53LAO TZEU.-La voie et sa vertu. Taotêking. Paris : Seuil, 1979, p. 21.
54HEINEMANN (R.).-L’univers philosophique. Paris : PUF, 1989, p. 1604.
55GROUSSET (R.).-Bilan de l’histoire. Paris : Pion, 1962, p. 151.
56PARLEBAS (P.).-Contribution à un lexique commenté en science de l’action motrice. Paris : INSEP, 1981.
57MERCIER (P.).-Histoire de l’anthropologie. Paris : PUF, 1966, pp. 151-157. A ce sujet, on peut consulter l’étude de Ruth BÉNÉDICT, “Le chrysanthème et le sabre”, Paris : Picquier, 1987.
58LEROI GOURHAN (A.).-Le geste et la parole, Technique et langage. Paris : Albin-Michel, 1964, p. 296.
tradotto da Storti Enrico da The Authentic Person as Ideal for the Late Ming Dynasty Physician Daoist Inner Alchemy in Zhang Jiebin’s Commentary on the Huangdi neijing. Original Paper UDC [133.5:221.3]:61(510)“15/16” Received January 7th, 2013 , Leslie de Vries University of Westminster, EASTmedicine, Room N3.110, Copland Building 115, New Cavendish Street, UK–W1W 6UW London l.devries@westminster.ac.uk
Otto Trigrammi 八卦 Prima del Cielo 先天 e Dopo il Cielo 后天 collegati rispettivamente agli schemi Hetu 河图 e Luoshu 洛书 (sopra)
Sebbene essenza, Qi e spirito sono tutti importanti, il Qi è il punto di partenza. L’ultima citazione nella Tavola 1 non è presa da una fonte Daoista, ma è presa dal medico Li Gao (1180–1251) della dinastia Jin. In “Ammonimenti sul Risparmiare Parole” (Shengyan zhen) alla fine del suo famoso Piwei lun (saggio su milza-stomaco, 1249), Li mette l’accento sul fatto che il Qi è la radice della coltivazione del corpo.
“il Qi è l’antenato dello spirito. L’Essenza è il figlia del Qi. Il Qi è la radice e lo stelo di essenza e spirito. Davvero grande! Raccogliere Qi per realizzare essenza. Raccogliere essenza per completare lo spirito.NDovrebbe essere chiaro e tranquillo. Controllalo dalla Via (yu zhi yi dao), e tu diventerai una Persona Celeste (tianren). Qualcuno che possiede la Via può fare ciò. Che tipo di uomo sono? È solo opportuno salvare le mie. Questo è tutto!”1
Nella dottrina medica di Zhang Jiebin, tuttavia, c’è un importante differenza con la spiegazione di Li Gao del Qi. Zhang distingueva due modi di Qi, cosa che aveva in comune con altri medici del finire dei Ming quali Sun Yikui (1522–1619), Zhao Xianke (16o–17o sec.), e Li Zhongzi. Per Zhang, c’è una differenza fondamentale tra il Qi pre-Cielo (xiantian qi) ed il Qi post-Cielo (houtian qi).2
Schema del posizionamento degli Otto Trigrammi Prima del Cielo in Bianco e Nero
Secondo Zhang, la differenza tra questi due stati del Qi può essere spiegata come segue:
“Xiantian è il Qi dell’Uno Autentico (zhenyi zhi qi). Esso è Qi trasformato dal vuoto. Così, il Qi si trasforma nella forma. Questo Qi proviene dal vuoto del nulla (ci qi zi xuwu zhong lai). L’Houtian è il Qi del sangue e dei fluidi corporei (xueqi zhi qi). Esso è Qi trasformato a partire dal grano. Così, la forma di trasforma in Qi. Questo Qi proviene dall’aggiustamento e dall’assorbimento (ci qi zi tiaoshe zhong lai).”3
Una sottile interazione quindi esiste tra Qi e forma (xing). Nell’opinione di Zhang, la forma è esattamente lo stesso dell’essenza (jing). Essa è “ciò che è prodotto dall’Uno Celeste ” (tianyi suo sheng), e come tale “l’antenato di ciò che ha forma” (you xing zhi zu).4
Perciò, l’essenza e non solo il prodotto del xiantian qi, ma è anche il punto di partenza di ogni cosa che esiste nel (houtian) cosmo. Ciò è inoltre illustrato dai riferimenti al Longhu jing (Classico del Drago e della Tigre)5 e ai due capitoli del Classico Interno.6
Infine, Zhang riassume le sue idee nella relazione tra essenza e Qi negli stati xiantian e houtian rispettivamente come segue:
“Il Qi del xiantian è Qi che si trasforma in essenza. Il Qi del houtian è essenza che si trasforma in Qi. Essenza e Qi si originano da una produzione reciproca. Quando l’essenza ed il Qi sono abbondanti, lo spirito fiorisce spontaneamente (shen zi wang).”7
Tavola 2. Relazione tra essenza e qi nei differenti stati del Qi secondo Zhang Jiebin
Stato del Qi
Origine del Qi
Relazione essenza-Qi
xiantian
Vuoto, vacuità
Qi essenza
houtian
Cereali
Essenza Qi
L’introduzione del xiantian nella corrente principale del pensiero filosofico è attribuita a Shao Yong (1012–1077) nella dinastia Song. Secondo la tradizione, l’insegnamento del pre-Cielo (xiantian xue) fu trasmessa a Shao Yong dal maestro Daoista semi-leggendario Chen Tuan.8 Xiantian, che si riferisce allo stato formale prima dell’esistenza del cosmo stesso, è come il Taiji, uno di quei concetti che si sono originati nella tradizione Daoista.9 Negli scritti di Shao Yong lo xiantian è associato con il “metodo del cuore” (xinfa)10 e con schemi grafici:
“Lo studio del xiantian è il metodo del cuore. Quindi, il diagramma (tu) nasce dal centro. Le miriadi di trasformazioni e le miriadi di cose sono nate dal cuore.“11
Xiantian Bagua e ciclo generativo delle Cinque Fasi
Sebbene lo xiantian, specialmente in relazione con gli schemi grafici, giochi un ruolo importante nell’ortodossia Neo-Confuciana sistematizzata da Zhu Xi (1130–1200), Alain Arrault ha mostrato che lo specifico ordine del diagramma associato con lo xiantian non può essere attestato negli scritti di Shao Yong.12 Né dovrebbe essere sovrastimato il concetto di xiantian nella filosofia di Shao Yong.
“L’espressione xiantian non apparve che negli ultimi capitoli del Jirang ji, in altre parole negli ultimi anni di vita di Shao. Inoltre, le sue relazioni più vicine non ne parlano che incidentalmente.”13
Mentre i Neo-Confuciani si riferiscono principalmente allo xiantian nel contesto dell’ordine schematico dell’esagramma, lo xiantian diventa sempre più usato comunemente nei successivi testi di alchimia interna, che certamente fecero uso anche di questi diagrammi.14
Per gli alchimisti interni, come Chen Zhixu della dinastia Yuan, la distinzione tra due modi del Qi è fondamentale. Nell’opinione di Chen, l’alchimia interna non riguarda il linguaggio esoterico, ma “l’ineffabile, che abbraccia tutto, immanente e trascendentale Qi del ‘Cielo Anteriore,'” come evidenziato nella sua prefazione al Jindan dayao.15 La somiglianza tra le spiegazioni di Chen Zhixu sul Qi xiantian e sul Qi houtian e quelle di Zhang Jiebin sono impressionanti. Compariamo, per esempio, le seguenti frasi del Jindan dayao, con le citazioni precedenti prese dai commenti di Zhang Jiebin:
“Ora, spiegherò il Qi che arriva dopo il Cielo e la Terra (hou tiandi zhi qi). Questo Qi è prodotto dai cereali. Dunque, esso [la composizione del carattere di Qi] proviene da ‘vapore’ e ‘riso’.16 Lo stomaco riceve i cereali e produce il Qi.17
… Solo, il Qi dell’Uno Autentico pre-Cielo può essere raffinato per farlo tornare nel campo di cinabro. Esso arriva dal vuoto del nulla.”18
Table 3. Comparazione tre le spiegazioni dei differenti stati di Qi nel Shangyangzi jindan dayao di Chen Zhixu e quelle nel Leijing di Zhang Jiebin
Stato del Qi
Jindan Dayao
Leijing
xiantian
Il qi dell’Autentico Prima del Cielo può essere raffinato per farlo ritornare nel cinabro. Viene dal nulla vuoto.
Il qi dell’Uno Autentico. E ‘qi trasformato dal vuoto
houtian
Il qi che viene dopo il Cielo e la Terra. Questo qi è prodotto dai cereali.
Il qi di sangue e qi. È qi trasformazione dei cereali.
Bagua del Re Wen (cioè Houtin) con i collegamenti alle cinque fasi
Anche nel Jindan dayao la relazione tra Qi ed Essenza/forma è spiegata. La produzione di essenza fuori dal Qi è una parte essenziale dell’ontogenesi dell’essere umano ed è comparata con la famosa cosmogonia del quarantaduesimo capitolo del Daodejing:
“Cos’è continuazione (shun)? uno produce due. Due produce tre. Tre produce la miriade delle cose.19 Così, il vuoto (xu) si trasforma nello spirito. Lo spirito si trasforma nel Qi. Il Qi si trasforma in essenza. L’essenza si trasforma nella forma. E, la forma completa l’essere umano.”20
Nelle pratiche alchemiche il ritorno allo stato primordiale del cosmo (xi-antian) è essenziale.
Inoltre, l’alchimista inverte (ni) l’ordine normale (shun) della cosmogonia:
“Che cos’è l’inversione? La miriade delle cose contiene il tre. Il tre ritorna al due. Il due ritorna all’uno. Coloro che conoscono questa Via concordano lo spirito (yi shen) e salvaguardano la forma (shou xing). Essi nutrono la forma e raffinano l’essenza. Essi accumulano l’essenza e la trasformano in Qi. Essi raffinano il Qi e lo uniscono con lo spirito. Essi raffinano lo spirito e lo fanno tornare al vuoto. Quando il cinabro d’oro (jindan) è così completato, esso dipende solo su quello di prima di Cielo e Terra (xian tiandi zhi yi wu)!”21
Anche se noi ancora potremmo argomentare che Zhang Jiebin potrebbe essere inserito nel contesto del Neo-Confucianesimo, dopo la comparazione tra le idee di Zhang Jiebinsul Qi xiantian-houtian e quelle di Chen Zhixu nel Jindan dayao, è molto evidente che Zhang deve molto alle spiegazioni alchemiche di Chen. Tali spiegazioni dettagliate sulle differenze tra Qi xiantian e houtian, come si trovano nei testi medici e di alchimia interna, sono assenti negli scritti Neo-Confuciani.22
Il cerchio è chiuso ora. Secondo la tradizione, Chen Tuan trasmise la xiantian xue a Shao Yong. Benché Zhu Xi considerasse essere anche Daoiste le idee di Shao Yong da includerlo nella trasmissione ortodossa della Via, alla fine della dinastia Ming, medici quali Zhang Jiebin tornarono indietro ai testi alchemici per spiegare l’essenza del Qi e la differenza tra il suo stato xiantian ed houtian.
Note
1come citato in Ibid., 7. Comparare con Li Gao, Piwei lun (Trattato su Milza-stomaco) (Beijing weisheng chubanshe, 2005), 96. Li Gao non fa riferimento alla Persona Autentica, ma alla Persona Celestiale (tianren).
2questa distinzione tra xiantian e houtian non si trova nei testi medici precedenti la dinastia Ming. Xiantian compare nel SW 69, SW 70, e SW 71, come un termine usato nel contesto delle condizioni climatiche. Vedere Xie Guan, ed., Zhongyi daci-dian (Grande Dizionario della Medicina Cinese) (1921; repr., Beijing: Shangwu yinshuaguan, 2004), 969.
7Zhang Jiebin, 8. Sulla mutua interdipendenza di Jing e Qi, vedere anche la citazione dal Jindan dayao nella tabella 1. Vorrei fare riferimento all’essenza e al Qi nella prossima sezione.
8Su Chen Tuan, vedere Livia Knaul, Leben und Legende des Ch’en T’uan (Berne: Peter Lang, 1981).
9Robinet, “The Place and Meaning of the No-tion of Taiji in Taoist Sources Prior to the Ming Dynasty,” 385; François Louis, “The Genesis of an Icon: The Taiji Diagram’s Early History,” Harvard Journal of Asiatic Studies 63, no. 1 (2003): 162.
10Alain Arrault, “Les diagrammes de Shao Yong (1012–1077): Qui les a vus ?” Études chinoises 19, no. 1–2 (2000): 77–78. See also Don J. Wyatt “Shao Yung and the Number,” in Sung Dynasty Uses of the I Ching, ed. Kid-der Smith et al. (Princeton: Princeton Univer-sity Press, 1990), 127.
11Shao Yong, Huangji jingshi shu (Book of the Passing of Ages of the August Ultimate), in WYG SKQS, 13:34b. Vedere anche Don J. Wyatt who explains: “Per Shao, l’apprendimento xiantian, se non il diagramma stesso, sembra aver avuto il proprio locus nella mente umana, che essa stessa si credeva esistere prima della formazione del Cielo”. Don J. Wyatt, The Recluse of Loyang: Shao Yung and the Moral Evolution of Early Sung thought (Honolulu: University of Hawai’i Press, 1996), 205.
12Solo la posizione di qian nel sud, Kun nel nord, li nell’est e Kan nell’ovest è riferita da Shao Yong. Arrault, “Les dia-grammes de Shao Yong (1012–1077),” 79.
14Ibid., 77–79, 82–83 e Alain Arrault, Shao Yong (1012–1077), poète et cosmologue (Paris: Collège de France, Institut de Hautes Études Chinoises, 2002), 282–286. Su xiantian e houtian nel contesto dell’alchimia interna, Vedere anche Isabelle Robinet, “Original Con-tributions of Neidan to Taoism and Chinese Thought,” in Taoist Meditation and Longev-ity Techniques, ed. Livia Kohn (Ann Arbor: The Center for Chinese Studies. University of Michigan, 1989), 323–324; e Pregadio and Skar, 484–485.
15Farzeen Baldrian-Hussein, “Shangyang zi jin-dan dayao,” in Schipper and Verellen, The Taoist Canon, 1180.
16Questa è una spiegazione etimologica del carattere Qi (氣). Il carattere raffigura ciò che è detto nella sentenza successiva. Il vapore (qi 气) sale dalla cottura del riso (mi 米). Oppure, in una visione più medica: i cereali entrano nello stomaco, dove sono processati. il Qi processato dei cereali sale nei polmoni, da cui si diffonde lungo tutto il corpo.
21Jindan dayao, 4:7b. Su continuazione e inversione, vedere Pregadio e Skar, 485.
22comparare per esempio con gli scritti di Zhu Xi, che scrisse anche un commentario sul Zhouyi cantong qi (Simbolo per la Corrispondenza dei tre secondo il Libro dei Cambiamenti), un testo base dell’alchimia interna. Questo commentario, tuttavia, “offre interpretazioni cosmologiche del Cantong qi che minimizzano la sua provenienza alchemica. Pregadio e Skar, 474.