Traduzione di Storti Enrico da
Favraud Georges Perspectives Chinoises Année 2008 105 pp. 114-118

Adam Frank pubblica qui una tesi di dottorato in antropologia sotto la direzione di Deborah Kapchan e discussa nel 2003 presso l’Università del Texas (Austin). Questo studio si basa sulla pratica dell’autore del “pugilato del polo supremo”, il taijiquan, nell’ambito della Jianquan Taijiquan Association (JTA [questo acronimo risulta perlomeno strano, visto che in Cinese il nome di questa associazione è 上海鉴泉太极拳社]) creata a Shanghai nel 1935 dal maestro di arti marziali Wu Jianquan. Secondo l’autore, tale pratica corporea transnazionale permette, dal punto di vista del discorso, di affermare certe concezioni di identità (in particolare di cinesità) e di confermare differenze (di etnia, estrazione sociale, nazionale). Dal punto di vista del vissuto, invece, diventa un mezzo per abolirli. L’autore si pone così l’obiettivo di “comprendere l’identità così come è, sia “sensualmente vissuta” che culturalmente costruita attraverso la pratica di un’arte marziale nella Repubblica Popolare Cinese e negli Stati Uniti” (p. 4). L’opera è resa molto vivace dal risalto dato a una moltitudine di schizzi e dialoghi che presentano i materiali etnografici dell’autore.

Nel primo capitolo l’autore espone le diverse dimensioni del suo lavoro. Questo capitolo è strutturato in modo piuttosto complesso, lungo tre assi: le storie relative al taijiquan, poi quelle relative al taoismo e che sarebbero venute ad essere associate di recente alle precedenti, e infine le idee preconcette che l’autore è stato portato a decostruire durante il suo studio sul campo. Nei capitoli 2 e 3, Adam Frank si concentra sulla dimensione dell’identità che descrive come “vissuta attraverso i sensi”. Descrive la pratica, i suoi rapporti con i suoi tre insegnanti JTA e con gli altri membri dell’associazione. Il taijiquan JTA è praticato principalmente da dilettanti e pensionati, nei parchi della megalopoli di Shanghai, da gruppi organizzati in reti sotto forma di “associazione” (il cui statuto giuridico non è spiegato dall’autore). Anche se evoca le tecniche individuali come fondamento delle tecniche con un partner, l’autore insiste soprattutto sulla pratica delle “spinte con le mani” (tuishou) in coppia. Questa tecnica, che si ritrova in tutti gli stili di taijiquan, se praticata in modo non competitivo, spiega, permette di sviluppare “l’ascolto dell’energia” del partner (tingjin).

Alcuni praticanti credono anche che “la spinta delle mani offra allo studente l’opportunità di percepire il qi dell’insegnante, sviluppare un senso di quiete interiore e, infine, acquisire la capacità di leggere l’intenzione di un avversario, anche senza toccarlo” (p. 24) , così come la capacità di “valutare istintivamente la qualità di una situazione” (p. 106). Si noti che questo “istinto”, non attributo “innato” della specie, ma intenzionalità incorporata dalla pratica delle tecniche, rimanda al concetto taoista di spontaneità/naturalezza (ziran). Dopo aver affrontato le persone e le loro pratiche, l’orizzonte di Adam Frank si estende, nei capitoli 3 e 4, al parco e alla città di Shanghai. Il Taijiquan è studiato lì come “arte pubblica”, che può essere vista praticare nelle strade e negli spazi verdi della città lasciati vuoti dagli urbanisti. «L’identità [poi] si muove attraverso la città e gli individui» (p. 145). Il corpo del praticante di taijiquan diventa “il mezzo che registra l’arte che gli viene trasmessa, e allo stesso tempo un attore che influenza il mondo che produce quest’arte” (p. 100). In particolare, vediamo i praticanti adattarsi alla riqualificazione della Piazza del Popolo e partecipare alla giornata del taijiquan, un evento sponsorizzato dal governo del distretto di Xuhui (Shanghai) per promuovere le pratiche “ortodosse” in un luogo precedentemente occupato dai praticanti del Falun Gong. In altre parole, il taijiquan della JTA è – insieme a molti altri gruppi riuniti sotto l’emblema del taijiquan – sostenuto dai funzionari cinesi per trasmettere i movimenti di qigong che sono caduti in disgrazia nel 1999 e che oggi sono considerati “eterodossi”. Nel capitolo 5, l’autore affronta il taijiquan come simbolo determinante (master symbol) della modernità e del potere dell’intervento statale nella costruzione delle identità. Analizzato qui come un “linguaggio cinestesico vernacolare dello stato”, un taijiquan standardizzato permette di creare “comunità immaginate”, opponendosi a forme tradizionali e locali (p. 160-161).

In altre parole, attraverso una politica di patrimonializzazione, il governo cinese, spinto dalla globalizzazione, sta monopolizzando una pratica tradizionale per farne uno sport competitivo e un’attività di svago di massa, soggiogando i corpi dei praticanti e trasformando le loro comunità. Con il governo repubblicano che aveva scelto le arti marziali come uno dei simboli distintivi della sua campagna per “rafforzare il corpo nazionale”, i maestri di arti marziali furono chiamati ad aprire il loro insegnamento al pubblico. Si trattava di trasformare il risentimento verso l’estero in una forza capace di restituire alla Cina una forte posizione internazionale. Gli obiettivi di vincere medaglie e portare le arti marziali alle Olimpiadi sono stati espressi già all’inizio del XX secolo. L’industrializzazione di Shanghai e l’emergere di una classe benestante spinsero poi molti maestri a venire a stabilirsi lì con le loro famiglie. A metà degli anni ’20, le prime competizioni marziali apparvero sotto forma di sport occidentali, come emerge in particolare all’interno dello scritto di Adam D. Frank, programmi supportati dalla YMCA (Young Men Christian Association). Negli anni ’50 fu attuata la politica culturale enunciata in Yan’an (1942) da Mao Zedong: il taijiquan e le altre arti marziali regionali rientrarono nella categoria degli “sport etnici tradizionali” (minzu chuantong tiyu) e vissero un’età dell’oro fino alla Rivoluzione culturale. Oggi, e in questa continuità, tutta una letteratura “commercia con il linguaggio della scienza moderna per convalidare e reificare il “tradizionale” (taijiquan) come pietra angolare dell’identità cinese” (p. 183). La narrazione marziale (capitolo 6) è anche un modo per l’autore di avvicinarsi alla costruzione dell’identità. La tradizione orale dei racconti marziali è antica ed è apparsa sul palcoscenico, in particolare nell’Opera di Pechino.

Fu verso la fine del XIX secolo che furono pubblicate e distribuite poesie di formule ritmate, indirizzate ai praticanti per trasmettere loro istruzioni tecniche, valori marziali e miti. Oggi, il taijiquan immaginario viaggia anche in Cina e oltre, attraverso romanzi, film, cartoni animati e videogiochi. Qui l’autore condivide l’esperienza della partecipazione alle riprese della serie televisiva americano-cinese sul gongfu intitolato Flatland [???]. A differenza della pratica del taijiquan nel parco, leggere o guardare tali opere comporta un atto di immaginazione distaccato dall’esperienza diretta delle arti marziali, “non è un’esperienza diretta del mondo che descrive, ma può ispirare l’esperto di arti marziali a ricostruire questo mondo” (p. 196). Dalla Rivoluzione Culturale alla politica di apertura degli anni ’80, numerose opere di narrativa hanno contribuito far avanzare le arti marziali dallo status di “residuo del feudalesimo” a quello di “una delle più alte conquiste della cultura cinese”. 202).

Da allora, hanno continuato a coltivare alcune rappresentazioni della Cina tradizionale, soprattutto tra gli adolescenti. Nel capitolo 7, l’autore mostra che “la storia della diffusione del taijiquan negli Stati Uniti è radicata nella storia dell’immigrazione cinese ed è intimamente correlata alla geopolitica del secondo dopoguerra. La guerra mondiale, l’emergere del cinema di Hong Kong e Taiwan e cambiamenti relativamente recenti nella politica statunitense nei confronti della Cina” (p. 211). In quanto pratiche transnazionali, le arti marziali incanalano il movimento e l’incontro di persone e identità, costituendo e ricostituendo molteplici forme di cinesità. L’adozione del taijiquan nel quadro della controcultura americana degli anni ’70 porta l’autore ad avanzare l’ipotesi di un taijiquan americano come resistenza al controllo del corpo da parte dello Stato, situandolo su questo punto nella continuità della tradizione taoista in Cina. L’autore mostra, attraverso le argomentazioni commerciali dei DVD di taijiquan, come questa pratica si integri nel discorso new age sulla salute, e in quello del fitness.

L’aspetto marziale dell’arte è quindi messo in ombra dalla sua associazione con il potere e la bellezza della natura, dalla sua capacità di tonificare i muscoli e bruciare i grassi, o anche dal rilassamento per liberare lo stress. usare. Inoltre, anche se la definizione di qi rimane confusa per i membri della comunità all’interno della quale appare, è l’atto stesso di usare questa parola che produce solidarietà sociale, che aumenta lo status di chi la pronuncia ed evoca un’immagine condivisa di un Cinese alternativo ed esotico” (p. 220). Inoltre, piuttosto che apprendere le tecniche marziali in sé, risulta che molti americani (si potrebbe probabilmente estendere agli “occidentali”) sono più motivati dall’apprendere la “filosofia” delle arti marziali che quella delle tecniche stesse: praticando, vogliono quindi “diventare cinesi per qualche ora” (p. 215).

La distinzione operata da Adam Frank tra ciò che è “vissuto attraverso i sensi” e ciò che è “costruito culturalmente” è uno dei fili conduttori del libro. Ha il merito di mostrare come, soprattutto in un contesto globalizzato, la pratica con l’“altro” permetta di instaurare una comunicazione tra le persone al di là dei pregiudizi identitari. Resta il fatto che questa distinzione sembra essere fatta qui troppo chiaramente. La scelta di non integrare il concetto di “persona” per concentrarsi sulla relazione sociale sembra ostacolare l’analisi dell’articolazione in rappresentazioni, corpi e tecniche. L’autore dedica la maggior parte della sua analisi delle tecniche a un movimento praticato in coppia (push hands). Altre tecniche, come quella che ho osservato in un tempio taoista di un villaggio nella Cina centrale, si basano più su una pratica solitaria, lenta o addirittura immobile.

Prima di sperimentare attraverso i sensi il “corpo-persona” dell'”altro” (attraverso la tecnica dello spingere le mani, ad esempio), l’ascolto di se stessi è infatti un primo passo necessario nel processo di determinazione e stabilizzazione (ding) della personalità (xing). Sebbene l’autore sottolinei che l’identità è “ancorata nei (wired into) nostri corpi attraverso l’esperienza ripetuta e l’interpretazione di quell’esperienza” (p. 11), costituendo una “scorta sedimentata di conoscenza sociale” (p. 62) – in altri parole che questa esperienza è diventata spontanea (ziran) – conclude che questa conoscenza incarnata viene poi condivisa e vissuta attraverso i sensi durante la pratica.

L’antica cosmologia cinese – e come aggiornata dai taoisti che ho osservato – ritiene che la quiete (jing) e il movimento (dong) siano due principi complementari e inseparabili. Le pratiche di quiete (jinggong) si concentrano sulla pacificazione del proprio corpo-persona (perché il termine “corpo” rimanda anche alla nozione di “persona”, come evidenziato dal doppio significato del termine shen). Fermando il movimento del corpo e la narrazione costantemente proiettata sul mondo, emerge naturalmente un’armonizzazione di sé con il cosmo. In altre parole, il praticante accede attraverso le tecniche, alla fonte dei concetti e dei valori che strutturano la comunità e le persone. È allora su questa base che si dispiega un movimento (dong) – attraverso “sensi che assumono senso”, sinonimo di presa di posizione nel rapporto con gli altri e con l’ambiente circostante. Ciò che rende il taijiquan una tecnica piuttosto che un aggregato di gesti sono le rappresentazioni e le finalità che la persona associa ai propri movimenti, nonché l’efficacia che la comunità riconosce nella loro esecuzione. Un tale ancoraggio nel corpo-persona e nel processo di incorporazione avrebbe forse permesso all’autore di chiarire il concetto spesso vago ed etereo di “identità” che egli definisce in perpetuo movimento tra spazi diversi (il parco del popolo, il appartamento, la città di Shanghai, la competizione sportiva, gli Stati Uniti…) e diversi livelli di discorso (la “tradizione” taoista, il passato fantasticato, la politica del governo, la new age…).

Basando la sua analisi su una moderna associazione della megalopoli di Shanghai, per poi rientrare negli Stati Uniti, Adam Frank si immerge subito anche nella complessità di una società globalizzata. Descrive certamente i processi storici di modernizzazione del taijiquan, ma senza partire dai simboli e dalle organizzazioni sociali in cui queste tecniche hanno avuto origine (cioè la cultura del corpo cinese prima della sua globalizzazione). I taoisti della tradizione della completa autenticità (quanzhen) – questi specialisti in tecniche corporee che studio – mi sembrano fornire un buon esempio di elaborazione e socializzazione alternativa del corpo-persona, ma articolata all’organizzazione sociale imperiale. Impegnandosi sulla base di una “affinità predestinata” (yuanfen) in un rapporto tra maestro e discepolo, questi taoisti entrano a far parte di una tradizione e di una comunità. Lasciano la loro terra natale e “lasciano la famiglia” (chujia).

Un atto carico di significati nella società imperiale dove l’organizzazione sociale si basava sulla religione distato confuciana, assumendo a livello locale la forma di clan di contadini che sacrificavano agli antenati e al dio della terra. Correlativamente alla padronanza delle loro tecniche rituali, questi taoisti si formarono una personalità, poi permisero ai fedeli di aggirare la gerarchia confuciana comunicando dal villaggio con le divinità della loro tradizione: i maestri ancestrali (zushi) della loro gerarchia celeste e il loro principi cosmologici. Durante la crisi d’identità dell’inizio del ventesimo secolo che Adam Frank descrive nel capitolo 5, la quiete (jing) era equiparata alla debolezza dell’uomo asiatico e all’immobilità della nazione cinese. I miti dello sviluppo tecnico-scientifico, economico e politico della modernità •associati al movimento (dong) •trasformarono la cultura cinese e le sue tecniche del corpo. Il retroterra cosmologico che ha sostenuto la cultura del corpo cinese è stato da allora messo a confronto con la cosmologia e le organizzazioni sociali di una modernità guidata dall’Occidente. Adam Frank, dimostrando che la modernizzazione ha cambiato l’ambiente delle tecniche JTA, riporta testimonianze che considerano da un lato l’evoluzione di queste tecniche come quelle di un’arte marziale verso una pratica salutistica, e che sottolineano dall’altro l’assenza di giovani nel gruppo fino interpretarlo come una sorta di “evirazione” (p. 115). Molti praticanti apprezzano poi le sessioni impreziosite da dimostrazioni o racconti di potenza. Anche a me sono state spesso riferite testimonianze simili: mi sono state infatti raccontate le lotte di questi “eroi” che venivano in città e che andavano a scuola, o addirittura esprimevano il desiderio di studiare le “applicazioni marziali” dei movimenti. Certo è che nella Shanghai degli anni 2000 la violenza è molto più simbolica che in un villaggio di epoca repubblicana. Tuttavia, questa questione della marzialità del taijiquan e della “virilità” cinese merita la nostra attenzione.

Secondo una tradizione orale taoista che mi è stata riferita, il taijiquan fu creato dal taoista Zhang Sanfeng durante la dinastia Ming. Avendo padroneggiato le tecniche di meditazione taoista, non aveva ancora raggiunto uno stato soddisfacente di salute e tranquillità. Ha poi sviluppato tecniche di movimento, prima di tutto per “nutrire la vita” (yangsheng), poi marziali per difendere il proprio spazio di esistenza in caso di aggressione. La realtà storica di questa versione è contraddetta dagli storici che collocano l’origine del taijiquan nell’arte marziale della famiglia Chen dell’Henan, nel XIX secolo. Senza entrare in dibattiti storici, mi sembra che questa teoria qui riportata da Adam Frank, non collochi questo corpus di tecniche nelle dinamiche della cultura corporea cinese, dove tecniche marziali, mediche e rituali di meditazione hanno convissuto a lungo in diverse comunità. Diverse antiche agiografie di maestri taoisti e buddisti, ad esempio, attribuiscono loro chiaramente abilità in molte di queste aree.

Dalle mie osservazioni, non vi è alcuna profonda differenza di natura anatomica o motoria tra questi diversi aspetti delle tecniche corporee cinesi. Le differenze riguarderebbero essenzialmente le rappresentazioni che ciascuno le associa. La meditazione, la medicina e le arti marziali possono indubbiamente costituire tre assi che permettono l’analisi di un rituale cinese come il taijiquan. Nel corso delle generazioni, è la capacità di alcune persone di interpretare e padroneggiare le proprie tecniche che spiega perché ci sono quasi tante varianti di taijiquan quanti sono i maestri di taijiquan, e quindi, a lungo termine, le tecniche si rinnovano, le tradizioni e le comunità che riuniscono appaiono e scompaiono. Questa teoria, che isola il taijiquan dal suo contesto storico, simbolico e sosociologico originario, mi sembra quindi contenere il rischio di contribuire a una ricostruzione della storia volta a legittimare l’etichetta di taijiquan come marcatore identitario di una Cina moderna e radiosa.

Per l’etnologo, questi due discorsi contraddittori (origine del taijiquan in combattimento o in meditazione) potrebbero esprimere più semplicemente il significato investito nelle loro tecniche da diversi praticanti di diverse comunità. Sentire esprimersi questo sentimento di evirazione ci spinge a pensare che la crisi di identità – che un secolo prima spinse la Cina a “rafforzare il corpo nazionale” – sia stata appena risolta. Se ci fosse un limite al lavoro di Adam Frank, starebbe nella mancanza di analisi delle tecniche, in particolare nel loro rapporto con la persona e con la sua cultura d’origine. Forse la sensazione di dispersione che a volte emerge dall’opera si spiega con la sua difficoltà a fare la sintesi tra uno strumento antropologico comunque rilevante e una profusione di materiale di ricerca sul campo. Adam Frank ha infatti il merito di aver svolto un lungo lavoro sul campo immerso nella comunità che stava studiando. Un’opera senza la quale non avrebbe potuto realizzare questo primo studio antropologico occidentale sulla pratica di una tecnica corporea cinese all’incrocio tra arti marziali, medicina e meditazione.

Particolarmente apprezzabile è anche l’approccio di Adam Frank, che consiste nel situare la pratica di un taijiquan di Shanghai in un paesaggio umano e urbano, confrontandola poi con la politica e la storia della sua modernizzazione. Molto istruttiva è anche l’analisi della globalizzazione di queste tecniche e la comparsa di comunità di praticanti negli Stati Uniti, attraverso i discorsi di new age, fitness, politica ed economia – filtri dai quali nessun occidentale è totalmente al riparo. •